Il caso sul quale si è pronunciata la Corte EDU ha riguardato le doglianze del ricorrente ai sensi dell’articolo 8 della Convenzione, in merito al sequestro e alla detenzione del suo computer nel corso di un procedimento penale. In breve, la Guardia di finanzia lettone aveva ricevuto informazioni su transazioni finanziarie sospette che coinvolgevano due società alle quali la società del ricorrente forniva servizi di contabilità. In ragione di ciò, era stato emesso un mandato di perquisizione presso l’abitazione della ricorrente, in cui la stessa esercitava anche la sua attività professionale. All’esito della perquisizione veniva sequestrato un computer per la decriptazione dei dati in esso contenuti. La Corte di Strasburgo, ritenuto ammissibile il ricorso, ha ricordato i principi riguardanti la liceità delle perquisizioni e dei sequestri effettuati presso l’abitazione o il luogo di attività professionale di un individuo, sottolineando come costituiscano un’ingerenza nel diritto di un individuo alla vita privata protetto appunto dall’articolo 8 della Convenzione. Tale ingerenza è ammissibile solo se è “conforme alla legge”, persegue uno scopo legittimo e non va oltre quanto è necessario in una società democratica. Ora, nella specie, pur non potendo valutare la natura dei dati memorizzati nel computer, i Giudici hanno ritenuto che la privazione di accesso al pc ha avuto un impatto sugli aspetti personali e professionali del ricorrente. E, pur concordando sul fatto che potrebbe non essere sempre praticabile effettuare un’ispezione e un esame di un computer durante una perquisizione, la Corte EDU ha osservato che la denunciata impossibilità di decifrare i dati da parte degli esperti non giustifica la detenzione del dispositivo per una durata complessiva superiore a quindici mesi, ritenendo tale misura sproporzionata. Alla luce di tali considerazioni, la Corte ha concluso che vi è stata violazione dell’articolo 8 della Convenzione.
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