La Corte costituzionale, per effetto della pronuncia n. 96 del 2015 e in ossequio al principio di non contraddizione, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 13, commi 3, lettera b), e 4 della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), nella parte in cui contempla come ipotesi di reato la condotta di selezione degli embrioni anche nei casi in cui questa sia esclusivamente finalizzata ad evitare l’impianto nell’utero della donna di embrioni affetti da malattie genetiche trasmissibili rispondenti ai criteri di gravità di cui all’art. 6, comma 1, lettera b), della legge 22 maggio 1978, n. 194 (Norme per la tutela della maternità e sulla interruzione della gravidanza) e accertate da apposite strutture pubbliche.
Di contro, la Corte ha respinto la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 14, commi 1 e 6, della legge 19 febbraio 2004, n. 40 in quanto deve escludersi che risulti censurabile la scelta del legislatore del 2004 di vietare e sanzionare penalmente la condotta di «soppressione di embrioni», ove pur riferita – ciò che propriamente il rimettente denuncia – agli embrioni che, in esito a diagnosi preimpianto, risultino affetti da grave malattia genetica.
L’embrione, infatti, quale che ne sia il, più o meno ampio, riconoscibile grado di soggettività correlato alla genesi della vita, non è certamente riducibile a mero materiale biologico.
Questa Corte ha già, del resto, riconosciuto il fondamento costituzionale della tutela dell’embrione, riconducibile al precetto generale dell’art. 2 Cost.; e l’ha bensì ritenuta suscettibile di «affievolimento» (al pari della tutela del concepito: sentenza n. 27 del 1975), ma solo in caso di conflitto con altri interessi di pari rilievo costituzionale (come il diritto alla salute della donna) che, in temine di bilanciamento, risultino, in date situazioni, prevalenti (sentenza n. 151 del 2009).