La Cedu si pronuncia sulla causa di una cittadina russa che aveva denunciato l’inadeguatezza dell’attuale sistema legale russo a contrastare violenze e discriminazioni di genere nei confronti delle donne.
In particolare, la donna lamentava che le autorità russe non erano riuscite a proteggerla da ripetute violenze domestiche, aggressioni, rapimenti, stalking e minacce di ogni genere perpetrate dall’ex partner. Ed infatti, tra gennaio 2016 e marzo 2018 la donna aveva denunciato numerosi episodi di
violenza attraverso chiamate di emergenza alla polizia, formali denunce penali, contestazioni, ecc. In diverse occasioni la donna si era recata in ospedale per le ferite subite; a seguito di una aggressione quando era incinta, la donna aveva finanche subito un aborto. In altre occasioni, la
donna aveva denunciato manomissioni dei freni della sua macchina, il furto della borsa con i suoi documenti di identità e due telefoni cellulari, ecc. Nonostante tutto questo, nessuna indagine penale era mai stata avviata nei confronti dell’uomo, né alcuna formale risposta era stata fornita alle richieste della donna volte ad ottenere misure di protezione da parte dello Stato. Di qui la decisione di adire la Corte Edu invocando la violazione degli articoli 3 (divieto di trattamenti inumani o degradanti), 13 (diritto a un rimedio effettivo) e 14 (divieto di discriminazione).
In primo luogo, la Corte ha rilevato, in generale, che la Russia non ha istituito ed applicato un efficace sistema di punizione di tutte le forme di violenza domestica e di sufficiente protezione per
le vittime. In secondo luogo, ha riconosciuto che la risposta delle autorità russe ai maltrattamenti denunciati dalla ricorrente era stata manifestamente inadeguata, non avendo adottato alcuna misura a protezione della donna, pur in presenza di prove del comportamento violento del suo ex compagno. Tale passività delle autorità aveva permesso a S. di continuare per anni a minacciare, molestare ed aggredire impunemente la donna. La Corte ha sottolineato in tale contesto che la Russia è rimasta tra i pochi Stati membri la cui legislazione non fornisce tutela alle vittime di violenza domestica attraverso misure restrittive volte a prevenirla, ad esempio imponendo al trasgressore di lasciare la residenza comune e di astenersi dall’avvicinarsi o contattare la vittima. In terzo luogo, lo Stato aveva fallito nel suo dovere di indagare e punire i maltrattamenti: infatti, nonostante la ricorrente avesse fornito prove credibili di abusi ricorrenti, testimonianze mediche, messaggi di testo, le autorità erano rimaste inerti, non avevano mai avviato una indagine penale contro S., che ne avrebbe assicurato la giusta punizione. Inoltre, sotto il profilo della violazione dell’art.14 Cedu, la Corte ha rilevato, sulla base di prove presentate dalla ricorrente, ma anche di fonti di informazione nazionali ed internazionali, che la violenza domestica in Russia colpisce in modo sproporzionato le donne. Le statistiche ufficiali rivelano, infatti, che le donne rappresentano la stragrande maggioranza delle vittime di tale genere di violenza, ma ciononostante le autorità hanno sinora dimostrato una certa riluttanza a riconoscere la gravità e la portata del problema in Russia, omettendo di adottare misure politiche per proteggere le donne da abusi e violenze domestiche e contrastare il trattamento discriminatorio nei loro riguardi. Tollerando per molti anni un clima favorevole alla violenza domestica, le autorità russe non sono riuscite a creare le condizioni per una sostanziale uguaglianza di genere, che avrebbe consentito alle donne di vivere libere dalla paura di maltrattamenti o attacchi alla loro integrità fisica e psichica e di beneficiare dell’uguale protezione della legge.
Di qui, dunque, la riconosciuta violazione dell’articolo 14, in combinato disposto con l’articolo 3 Cedu.