La Corte Edu si pronuncia sul caso di un cittadino ungherese, affetto da sclerosi laterale amiotrofica (SLA) in stadio avanzato, non curabile, il quale rivendica il diritto di decidere quando e come porre fine alla propria vita, prima che la malattia raggiunga uno stadio che egli reputa intollerabile. A tal fine, avrebbe bisogno di assistenza al suicidio, ma chiunque prestasse tale aiuto rischierebbe di essere perseguito penalmente, anche se il fatto si consumasse in un paese che permette la morte medicalmente assistita. Per tali motivi, il ricorrente ha lamentato l’impossibilità di porre fine alla propria vita con l’aiuto di altri e la sua discriminazione rispetto ai malati terminali tenuti in vita da trattamenti di sostegno vitale, che possono chiedere la sospensione delle cure ed accelerare il momento della propria morte. I Giudici di Strasburgo hanno, innanzitutto, osservato che la prestazione di servizi di morte medicalmente assistita comporta implicazioni sociali estremamente ampie e rischi di errori e abusi tali per cui, nonostante una tendenza crescente verso la legalizzazione, la maggior parte degli Stati membri del Consiglio d’Europa continua a vietare sia il suicidio medicalmente assistito che l’eutanasia. In tale ambito, pertanto, lo Stato dispone di un ampio potere discrezionale e le autorità ungheresi avrebbero trovato un giusto equilibrio tra gli interessi concorrenti in gioco, senza oltrepassare tale potere discrezionale. Per quanto riguarda la presunta discriminazione, la Corte ha ritenuto il rifiuto o la revoca delle cure in situazioni di fine vita – consentito nella maggior parte degli Stati membri- intrinsecamente legato al diritto al consenso libero e informato, piuttosto che al diritto ad essere aiutato a morire, come ampiamente riconosciuto nell’ambito della professione medica e stabilito anche nella Convenzione di Oviedo del Consiglio d’Europa. La Corte, pertanto – sottolineata l’importanza della garanzia delle cure palliative per una morte serena e dignitosa – ha ritenuto l’asserita differenza di trattamento delle due categorie di malati oggettivamente e ragionevolmente giustificata. Nessuna violazione, dunque, del diritto al rispetto della vita privata e familiare (art.8), né del divieto di discriminazioni (art.14).
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