Nella presente causa i ricorrenti avevano lamentato di essere stati esposti al rischio di tortura e di maltrattamenti in seguito al rifiuto loro opposto dalle autorità polacche della domanda di asilo. Ciò, secondo quanto si legge nel ricorso, avrebbe violato l’art. 3 della Convenzione, in quanto il respingimento nel loro Paese non era stato adeguatamente garantito dalle autorità polacche. In aggiunta a tale doglianza, essi avevano denunciato di essere stati oggetto di un’espulsione collettiva, vietata dall’4 del Protocollo n. 4 della Convenzione. Nella specie, la Corte ha ritenuto che le domande di protezione internazionale presentate dai ricorrenti fossero circostanziate e suffragate da statistiche ufficiali riguardo l’inefficace sistema di garanzie tale da procurare un serio rischio di maltrattamenti. In questo senso, le autorità polacche non avevano infatti predisposto nessuna tutela e, soprattutto, non avevano consentito ai ricorrenti di restare sul territorio polacco in attesa dell’esame delle loro domande, esponendoli consapevolmente al rischio di respingimento a catena e di trattamenti disumani vietati dall’art. 3 CEDU. In fine, quanto alla lamentata questione dell’espulsione collettiva, la Corte ha ribadito i principi generali già in precedenza espressi e ha ritenuto che le decisioni di rifiuto di ingresso emesse nei posti di frontiera costituiscono un’espulsione ai sensi della summenzionata norma e, nel caso di specie, il rifiuto opposto dalle autorità polacche non aveva avuto debitamente conto della situazione individuale di ciascuno dei richiedenti, ma rientrava in una più generale politica di respingimento tale da costituire un’espulsione collettiva di stranieri in violazione dell’art. 4 del Protocollo n. 4 della CEDU.
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