La Corte, con la sentenza n. 28, ha dichiarato parzialmente incostituzionale l’articolo 53, secondo comma, della legge n. 689 del 1981, per violazione dei principi di eguaglianza e finalità rieducativa della pena. La Corte, perciò, ha ritenuto che ai 250 euro debbano essere sostituiti i 75 euro già previsti dalla normativa in materia di decreto penale di condanna, fermo restando l’attuale limite massimo giornaliero di 2.500 euro. La norma censurata dal Tribunale di Taranto prevede che il giudice può sostituire le pene detentive non superiori a sei mesi con una pena pecuniaria, il cui ammontare si ottiene moltiplicando i giorni della pena da sostituire per un importo a carico dell’imputato, stabilito tenendo conto delle sue condizioni economiche. Importo che però, nella formulazione dichiarata incostituzionale, non può essere inferiore a 250 euro al giorno. La Corte ha
infatti affermato che il tasso minimo di 250 euro al giorno previsto dalla legge trasforma la possibilità̀ di sostituire il carcere con la pena pecuniaria in un privilegio per i condannati abbienti. La Consulta ha rilevato che, se l’impatto di pene detentive della stessa durata è, in linea di principio, uguale per tutti i condannati, non altrettanto può dirsi per le pene pecuniarie: una multa di mille euro, ad esempio, può essere più o meno afflittiva secondo le disponibilità di reddito e di patrimonio del singolo condannato. Nella prospettiva di un’eguaglianza “sostanziale” e non solo
“formale”, allora, la sentenza sottolinea la necessità che il giudice possa sempre adeguare la pena pecuniaria alle reali condizioni economiche del reo, per evitare che risulti sproporzionatamente gravosa. Una quota giornaliera minima di 250 euro, ha proseguito la Corte, è ben superiore alla
somma che la gran parte delle persone che vivono oggi nel nostro Paese sono ragionevolmente in grado di pagare. Moltiplicata poi per il numero di giorni di pena detentiva da sostituire, una simile quota conduce a risultati estremamente onerosi per molte di queste persone. La Corte ha concluso che solo una disciplina della pena pecuniaria in grado di garantirne una
misura proporzionata alla gravità del reato e alle condizioni economiche del reo, nonché la sua effettiva riscossione, può costituire una seria alternativa alla pena detentiva, così come di fatto accade in molti altri Paesi.