La decisione resa al caso in esame ha avuto ad oggetto il ricorso presentato da un’associazione rumena senza scopo di lucro e da altri cittadini contro la Romania, con il quale si lamentava la mancata protezione da parte dello Stato per abusi verbali omofobici e minacce subiti in occasione di una serie di eventi culturali organizzati per celebrare la storia LGBT.
L’associazione ricorrente è, infatti, un’organizzazione che promuove gli interessi delle persone lesbiche, gay, bisessuali e transgender e, nella specie, denunciava il fatto che contemporaneamente all’evento organizzato, consistente nella proiezione di un film e narrante la storia di una famiglia omosessuale, veniva organizzata una mobilitazione online di protesta e un’irruzione con cartelli xenofobi nel museo in cui si svolgeva il suddetto evento, di fatto poi interrotto. Sulla base degli avvenimenti occorsi veniva quindi lamentata la violazione degli articoli 3, 8, 11 e 14 della Convenzione e dell’articolo 1 del Protocollo n. 12 CEDU. In sostanza le doglianze vertevano sulla violazione del principio di non discriminazione sulla base dell’orientamento sessuale. Il Governo sosteneva, dal canto suo, che il trattamento subito dai ricorrenti non fosse tale da integrare condotte discriminatorie né tanto meno che le lamentate violazioni avessero raggiunto la soglia di trattamento degradante ed umiliante, asserendo di aver garantito efficacemente la tutela e la salvaguardia dei diritti dei ricorrenti. La Corte EDU nel rendere il suo giudizio ha proceduto a scrutinare ciascuna doglianza, interpretando le richiamate disposizioni convenzionali in combinato disposto con l’art. 14 CEDU e, sulla base del principio di non discriminazione, ha ritenuto che le autorità nazionali non hanno garantito una protezione adeguata ai ricorrenti sotto il profilo della loro vita privata, omettendo di indagare efficacemente sulla natura omofobica delle condotte tenute contro gli stessi ricorrenti. Del resto, ha osservato la Corte – viste le circostanze – sarebbe stato opportuno condurre un’indagine significativa al fine di accertare se le violenze e gli abusi verbali fossero di origine discriminatoria, data l’ostilità manifestata nei confronti della associazione LGBT. Quanto alla dedotta violazione dell’art. 8 CEDU, i giudici di Strasburgo hanno ricordato che il concetto di “vita privata” è una nozione ampia che copre l’integrità fisica e psichica della persona, ma soprattutto vi rientrano nella sfera di protezione l’orientamento sessuale e la vita sessuale dell’individuo. Per conseguenza, la violenza verbale subita dalle vittime, ha raggiunto, nel caso di specie, un livello di gravità e di serietà tale da ritenersi violato il diritto garantito dall’art. 8 della Convenzione. Altresì violata è stata ritenuta la libertà di riunione protetta dall’art. 11 CEDU nella misura in cui le autorità di polizia non sono riuscite a garantire lo svolgimento dell’evento in modo pacifico. Infatti, l’interruzione della proiezione del film è stata considerata senz’altro un’ingerenza nel diritto dei ricorrenti alla libertà di riunione, aggravata dalla circostanza che fosse dipesa dai sussistenti e comprovati pregiudizi omofobi. Pertanto, e conclusivamente, la Corte ha dichiarato la violazione dell’art. 14 della Convenzione in combinato disposto con gli articoli 8 e 11 e ha condannato lo Stato al risarcimento del danno patrimoniale.