Nella sentenza resa al caso qui in esame, la Corte EDU ha riscontrato la violazione dell’art. 3 della Convenzione che, come noto, vieta la tortura o comunque trattamenti e punizioni inumani o degradanti. Nella specie il ricorso era stato sollevato da un cittadino polacco condannato per omicidio e rapina alla reclusione di venticinque anni e detenuto presso un istituto penitenziario con regime carcerario previsto per “detenuti pericolosi”. Tale misura era stata applicata sulla scorta di una serie di valutazioni svolte dalla Commissione penitenziaria, la quale aveva ritenuto il ricorrente, leader e partecipante attivo di una protesta collettiva scoppiata all’interno del centro di detenzione, mettendo in grave pericolo la stessa sicurezza carceraria. Trasferito in un’altra struttura il suddetto regime carcerario veniva prorogato stante la presunta pericolosità del soggetto ed il persistere di una condotta insubordinata.
Il ricorrente avverso tali decisioni aveva più volte presentato ricorso innanzi ai giudici nazionali, lamentando la prolungata applicazione del più gravoso e rigido regime carcerario, accompagnato – almeno sino alla modifica delle disposizioni inerenti le misure di sicurezza del Codice di esecuzione delle condanne penali – da perquisizioni corporali complete, ripetute quotidianamente ed ogni volta che usciva o entrava nella sua cella, pur senza essere giustificate da esigenze specifiche di sicurezza.
Nel ricorso presentato innanzi alla Corte EDU, il Governo polacco riteneva la fondatezza delle decisioni prese dalla Commissione penitenziaria, peraltro, confermate dai giudici nazionali. Diversamente i giudici di Strasburgo, dopo aver dichiarato la ricevibilità del ricorso stesso, e facendo leva su un analogo precedente, hanno ritenuto che le misure di sicurezza applicate al detenuto non fossero necessarie ad assicurare e garantire specifiche esigenze di sicurezza carceraria. Le perquisizioni e le ispezioni così come l’ammanettamento sistematicamente applicati si erano rivelati di fatto intrusivi ed imbarazzanti e “non necessari”. Per di più tali pratiche avevano suscitato nel ricorrente sentimenti di inferiorità, angoscia ed umiliazione, superando la soglia dell’inevitabile sofferenza. Sulla scorta di tali valutazioni, la Corte EDU, non ravvisando fondate e giustificate le motivazioni comprovanti la necessarietà delle misure applicate, ha ritenuto vi fosse stata violazione dell’art. 3 CEDU.