La CEDU si è pronunciata sull’art. 3 Conv. che recita “nessuno può essere sottoposto a tortura o trattamenti o punizioni inumani o degradanti”. Il ricorrente, disabile per disturbi mentali condannato a reclusione per stupro, ha lamentato che il regime carcerario di massima sicurezza in cui era stato posto era incompatibile con le sue condizioni mentali, affermando inoltre di non aver ricevuto cure adeguate alla sua disabilità mentale. Ha inoltre sostenuto che la sua malattia era peggiorata in carcere, come dimostrato dal fatto che era diventato completamente dipendente dall’assistenza di terzi. Per la Corte, il rischio di deterioramento della salute mentale e fisica del richiedente, derivante dalle condizioni di detenzione in un carcere di massima sicurezza, è stato sufficiente a dare luogo ad una violazione dell’art. 3 Conv. Per la Corte, lo Stato è tenuto a garantire che le modalità ed il metodo di esecuzione della misura non sottopongano un detenuto con disturbi mentali a disagio o a difficoltà di un’intensità che supera quell’inevitabile livello di sofferenza inerente alla detenzione e che la salute ed il benessere della persona siano adeguatamente garantiti. In tale ottica la Corte ha notato che gli obblighi ai sensi dell’art. 3 possono arrivare fino ad imporre allo Stato l’obbligo di trasferire i prigionieri in strutture speciali al fine di ricevere un trattamento adeguato. Per la Corte non solo le autorità nazionali non sono riuscite a garantire la salute del richiedente ma nonostante la sua complessa condizione e la sua autoaggressione, hanno ritenuto opportuno collocarlo sotto un regime carcerario di massima sicurezza, proprio sulla base del suo comportamento aggressivo. E’ stato inoltre rilevato che viste le condizioni del richiedente, egli avrebbe avuto diritto all’aiuto di un assistente personale senza fare alcuna richiesta, tuttavia egli è stato lasciato senza aiuto. Infine, i giudici di Strasburgo hanno notato con preoccupazione che quando il ricorrente si trovava in ospedale carcerario, è riuscito a ferirsi gravemente inserendosi dei chiodi in testa. In conclusione alla luce di ciò la Corte ha affermato che le autorità nazionali non sono riuscite a fornire una coerente strategia terapeutica in grado di rispondere in modo adeguato alle esigenze mediche del ricorrente in modo da evitare di sottoporlo a trattamenti contrari all’art. 3 Conv.
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