La Corte Edu si pronuncia sul caso di Pavla Sabalić, cittadina croata, che a gennaio 2010 aveva subito una violenta aggressione in una discoteca di Zagabria da parte di un uomo, M.M. La ragazza aveva rifiutato le avances di M.M., aggiungendo di essere lesbica, rivelazione che aveva scatenato la furia dell’uomo, che l’aveva picchiata e presa a calci duramente, gridando frasi omofobe molto violente. La ricorrente aveva subìto ferite multiple su tutto il corpo, che avevano reso necessario il suo ricovero in ospedale.
Ciononostante, l’aggressore era stato condannato, in un procedimento per un reato minore, per violazione della pace e dell’ordine pubblico, al pagamento di una multa di 300 kune croate (circa 40 euro (EUR). La sig.ra Sabalić, che non era stata informata di tale procedimento, ha presentato una denuncia penale contro M.M. dinanzi alla Procura dello Stato, sostenendo di essere stata vittima di un violento crimine d’odio e discriminazione. L’ufficio del procuratore di Stato ha avviato un’indagine penale, ma alla fine ha respinto la denuncia nel luglio 2011 perché M.M. era già stato perseguito e condannato nel procedimento per un reato minore, circostanza che impediva l’esercizio dell’azione penale. I tribunali nazionali hanno confermato questa decisione. La Corte Edu, adìta dalla sig.ra Sabalić, ha ribadito che gli Stati, nel corso di indagini su incidenti violenti, hanno il dovere, ai sensi della Convenzione, di adottare tutte le misure ragionevoli per accertare se la discriminazione abbia avuto un ruolo. Tale dovere include anche l’identificazione e, se del caso, la punizione adeguata dei responsabili della violenza. Tali requisiti della Convenzione non erano stati soddisfatti nel caso della ricorrente, in quanto il procedimento avviato per il reato minore contro il suo aggressore non aveva affrontato il tema se il
reato commesso configurasse un crimine d’odio e discriminazione. Inoltre, l’aggressore era stato condannato a una multa irrisoria di circa 40 euro, una somma manifestamente sproporzionata rispetto alla gravità dell’offesa.
Peraltro, i Giudici di Strasburgo hanno osservato che la polizia, a conoscenza fin dall’inizio del fatto che l’attacco di M.M. alla ricorrente era stato sferrato subito dopo la rivelazione del suo orientamento sessuale, pur avendo il dovere di informare subito l’ufficio del procuratore dello Stato competente, non lo aveva fatto. Nel complesso, la Corte ha ritenuto che l’aver risposto all’offesa subita dalla ricorrente ricorrendo a procedimenti per reati minori, fosse sintomatico del fatto che lo Stato non era impegnato, in base alla Convenzione, a contrastare efficacemente la violenza omofoba; anzi, quella debole risposta aveva alimentato un senso di impunità rispetto a violenti crimini ispirati dall’odio. La Corte, pur prendendo atto della posizione delle autorità nazionali, secondo cui la condanna finale di M.M. nel procedimento per reato minore aveva creato un impedimento formale all’azione penale, ha rilevato che tale situazione era stata determinata dalle stesse autorità nazionali. Peraltro, è stato ribadito che il principio della certezza del diritto in materia penale non è assoluto: l’articolo 4 § 2 del
Protocollo n. 7 (diritto a non essere processato o punito due volte) della Convenzione espressamente consente agli Stati contraenti di riaprire un caso a scapito di un imputato nel caso in cui, tra le altre cose, sia stato rilevato un difetto fondamentale nel procedimento, circostanza inverata nel caso di specie, secondo la Corte. In definitiva, i Giudici di Strasburgo hanno ritenuto che, avviando i procedimenti inefficaci per reati minori e interrompendo erroneamente il procedimento penale per motivi formali, le autorità nazionali, non avevano rispettato adeguatamente ed efficacemente il loro obbligo procedurale ai sensi dell’art.3 in combinato disposto con l’art. 14 della Convenzione.