La questione sottoposta all’esame della Corte prende le mosse dal ricorso presentato contro la Repubblica italiana da un cittadino il quale ha lamentato di essere stato detenuto in un ospedale psichiatrico giudiziario e, successivamente, in una residenza per l’esecuzione di misure di sicurezza oltre la durata prevista da una legge entrata in vigore successivamente alla pronuncia del provvedimento nonché l’impossibilità di chiedere un risarcimento per la presunta violazione dei suoi diritti al riguardo. In proposito, la Corte ricorda che qualsiasi privazione della libertà non solo deve rientrare in una delle eccezioni previste dai paragrafi da a) a f) dell’articolo 5 § 1, ma deve anche essere “lecita” e cioè deve basarsi sul rispetto delle norme sostanziali e procedurali. Nel caso di specie, sebbene sia pacifico che la detenzione del ricorrente era stata inizialmente imposta conformemente alla normativa nazionale, successivamente era divenuta illegittima poiché la sua durata si poneva in contrasto con i limiti temporali delle misure di sicurezza detentive introdotti dalla legge n. 81 del 2014. Peraltro, accanto alla violazione dell’art. 5, paragrafo primo della Convenzione, la Corte ha ritenuto che ad essere violato sia stato anche il paragrafo cinque del medesimo parametro poiché il ricorrente non ha ottenuto alcun risarcimento per l’illegittimità della detenzione da egli subita.
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