L’annotata decisione sulla conformità costituzionale del Conseil Constitutionnel appartiene alla
tipologia delle decisioni DC, Contrôle de constitutionnalité des lois ordinaires, lois organiques, des traités,
des règlements des Assemblèes. Si tratta di un giudizio a priori di costituzionalità. Alcuni deputati
chiedono alla Conseil di esprimere il proprio parere circa l’approvazione di una legge rivolta a
proteggere gli alloggi contro occupazioni illecite. Essi dubitano della conformità a Costituzione degli
artt. 2, 3 e 7, nonché di alcune disposizioni degli articoli 1, 4, 6, 8 e 10, dell’emananda legge. In
particolare, l’art. 1 della legge introduce nel codice penale il nuovo articolo 315-1, che punisce il fatto
di entrare in determinati locali mediante «manoeuvres, menaces, voies de fait ou contrainte» (manovre,
minacce, aggressioni o coercizioni), nonché il fatto di rimanervi dopo essersi così introdotti. I
ricorrenti lamentano, in particolare l’imprecisione della definizione dei reati costituiti da simili
disposizioni, avuto riguardo anche ad alcune specifiche situazioni, quali «locali ad uso abitativo o
commerciale, agricolo o professionale». L’incertezza del dato normativo, dovuto ad una scadente
attività legislativa, ingenererebbe confusione tra l’incriminazione così manifestata e quella posta,
invece, in linea generale dall’art. 226-4 del codice penale, che consente di punire i trasgressori in
presenza di disposizioni chiare e prevedibili della legge, in attuazione di sovraordinati principi
costituzionali in materia di certezza della «pena». Inoltre, vi sarebbe, altresì, violazione dei principi
di necessità e proporzionalità dei reati e delle pene. Il Conseil richiama l’attenzione sull’art. 8 della
Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, per il quale: «la legge deve stabilire solo pene
strettamente ed evidentemente necessarie e nessuno può essere punito se non in virtù di una legge
stabilita e promulgata prima del delitto, e legalmente applicata». Inoltre, l’art. 61 della Costituzione
non attribuisce al Consiglio costituzionale un potere generale di apprezzamento e di decisione della
stessa natura di quello del Parlamento. Se la necessità delle sanzioni connesse ai reati rientra nella
discrezionalità del legislatore, spetta al Consiglio costituzionale vigilare che non vi sia una manifesta
sproporzione tra il reato e la pena inflitta, secondo il canone della ragionevolezza. E’ anche da
considerare l’art. 34 della Costituzione, secondo cui: «la legge stabilisce le norme concernenti (…) la
determinazione dei crimini e dei delitti nonché le pene ad essi applicabili». E’, dunque, obbligo del
legislatore, ai sensi delle citate disposizioni dell’art. 8 della Dichiarazione e dell’art. 34 della
Costituzione, dai quali si ricava il principio di legalità in materia penale, dei reati e delle pene che
risulta dall’articolo 8 della Dichiarazione del 1789, di stabilire l’ambito di applicazione della legge
penale e di definire crimes et délits in termini sufficientemente chiari e precisi, così da escludere ogni
possibile arbitrarietà. La pena stabilità per l’illecito introdursi ed il permanervi in locali abitativi,
commerciali, agricoli o professionali altrui, è di due anni di reclusione e una multa di 30.000 euro. Il
Consiglio costituzionale ritiene, al riguardo, che le nozioni di locale ad uso abitativo e di locale ad
uso commerciale, agricolo o professionale non siano affatto né imprecise né equivoche. Il legislatore,
adottando tali disposizioni, ha inteso reprimere alcuni comportamenti idonei a danneggiare il
patrimonio. Di conseguenza il delitto previsto dalle disposizioni censurate non viola né il principio
di legalità in materia penale, né i principi di necessità e proporzionalità. Sorge, poi, questione sull’art.
6 della Dichiarazione del 1789, per il quale, tra l’altro, la legge «deve essere uguale per tutti, sia che
protegga sia che punisca». Naturalmente, il principio di eguaglianza davanti alla legge, in questo
caso penale, non impedisce al legislatore di operare necessarie distinzioni in relazione ad azioni
(agissements) di natura diversa. Nelle fattispecie concrete si giustifica un trattamento differenziato in
relazione alla diversa funzione ed uso dei locali, con particolare riferimento al costituire o meno
domicilio (v. artt. 315-1 e 226-4 del codice penale). I reati di occupazione fraudolenta di locali e di
violazione di domicilio sanzionano fatti di diversa natura: il primo, punisce l’attentato al patrimonio;
il secondo, l’aggressione alle persone. E’, dunque, respinta, in relazione alle descritte disposizioni, la
contestazione circa il mancato rispetto del principio di eguaglianza, in quanto le disposizioni sono
dell’art. 315-1 del codice penale sono conformi alla Costituzione, anche sotto il profilo della chiarezza
e precisione delle definizioni adottate. Oggetto di censura è, inoltre, l’art. 2 della legge che mira a
modificare l’art. L. 412-3 del Codice di procedura civile, nel senso dell’esclusione della possibilità
per gli occupanti di determinati locali, il cui sgombero è stato ordinato giudizialmente, di beneficiare
di proroghe (délais renouvelables), allorquando siano entrati in detti locali attraverso l’uso di manovre,
minacce, aggressioni o coercizione. Secondo i deputati ricorrenti, privare la persona espulsa dai locali
di ogni possibilità di ottenere proroghe da parte del giudice, equivale a pregiudicano il diritto ad un
ricorso giurisdizionale effettivo e, in generale, l’esercizio dei diritti di difesa. Inoltre, tali disposizioni
disattenderebbero all’obiettivo di valore costituzionale circa la possibilità per ogni persona di
disporre di un alloggio dignitoso, poiché accelererebbero l’espulsione delle persone svantaggiate
senza tener conto della loro situazione personale o familiare. Rileva, al riguardo, l’art. 16 della
Dichiarazione del 1789, secondo cui: «ogni società in cui la garanzia dei diritti non è assicurata, né la
separazione dei poteri stabilita, non ha una Costituzione». Questa disposizione garantisce il diritto
di difesa ed il diritto alla tutela giurisdizionale. Difatti, l’art. L. 412-3 del Codice di procedura civile
consente al giudice che ordina lo sgombero o al giudice dell’esecuzione, salvo in determinate
circostanze, di concedere proroghe all’occupante, nei casi in cui il ricollocamento non può avvenire
in condizioni normali. L’art. L. 412-4, nella sua formulazione risultante dall’articolo 10
dell’emananda legge, stabilisce, inoltre, termini minimi e massimi di proroga in considerazione delle
situazioni personali o familiari dell’occupante e del proprietario: la proroga non può essere inferiore
a un mese né superiore a un anno. Anche in tal caso, di conseguenza, il Consiglio costituzionale
respinge le censure mosse contro le disposizioni, avuto riguardo pure al disposto dell’art. 2 della
Dichiarazione del 1789, secondo cui: «il fine di ogni associazione politica è la conservazione dei diritti
naturali e imprescrittibili dell’uomo. Questi diritti sono la libertà, la proprietà, la sicurezza e la
resistenza all’oppressione». La libertà proclamata da questo articolo implica il diritto al rispetto della
vita privata e, per ciò che qui direttamente interessa, all’inviolabilità del domicilio. A questa
disposizione fa eco il Preambolo della Costituzione del 1946, nel riaffermare i diritti, le libertà e i
principi costituzionali, sottolineando che: «dopo la vittoria riportata dai popoli liberi sui regimi che
tentano di asservire e degradare la persona umana, il popolo francese proclama ancora una volta
che ogni essere umano, senza distinzione di razza, religione o credo, è dotato di diritti inalienabili e
sacri». Deriva che la tutela della dignità della persona umana contro ogni forma di schiavitù e di
degrado è un principio di valore costituzionale. Nel caso delle disposizioni in esame, il legislatore
ha inteso garantire la rapida esecuzione della decisione, che dispone lo sgombero al fine di rafforzare
l’efficacia delle relative procedure giurisdizionali e legali. Di conseguenza, queste disposizioni
garantiscono ed attuano il diritto di proprietà ed il diritto di ottenere l’esecuzione e, dunque, il
rispetto, delle decisioni dei tribunali, effetto irrinunciabile del riconoscimento del diritto ad una
tutela giurisdizionale effettiva assicurata dal dianzi ricordato art. 16 della Dichiarazione del 1789. Le
censure di incostituzionalità vengono, anche in questo caso respinte, in quanto l’ultimo comma
dell’articolo L. 412-3 del codice di procedura civile è conforme alla Costituzione. Sorge, poi,
questione sull’art. 3 dell’emananda legge, che, in modifica del primo comma dell’art. 226-4 del codice
penale, inasprisce le pene per il reato di violazione di domicilio. Ci si lamenta della sproporzionalità
delle sanzioni: il vigente art. 226-4 del codice penale punisce il reato di violazione di domicilio con
un anno di reclusione e una multa di 15.000 euro; le nove introducende disposizioni impugnate
aumentano tali pene a tre anni di reclusione e ad euro 45.000 di multa. Avuto riguardo alla natura
dei comportamenti oggetto di reato, osserva il Consiglio costituzionale che il legislatore ha inteso,
legittimamente, rafforzare la repressione degli attentati commessi contro le abitazioni altrui, di
conseguenza, non si ravvisa la violazione del principio di proporzionalità e le disposizioni di
aumento delle pene sono ritenute conformi a Costituzione. L’art. 4 dell’emananda legge, poi,
inserisce nel codice penale un nuovo articolo 226-4-2-1, il cui primo comma punisce la propaganda
o la pubblicità in favore di metodi volti a facilitare o incitare la commissione dei reati di violazione
del domicilio e di occupazione fraudolenta di alcuni locali. I deputati ricorrenti lamentano
l’imprecisione dei termini «propaganda» e «pubblicità» adottati, peraltro a fronte di multe severe,
pari a 3.750 euro in caso di violazione. Anche in questo caso, di diverso avviso è il Consiglio
costituzionale, per il quale i suddetti termini, agevolmente intelligibili, non sono né ambigui né
equivoci e svolgono legittime funzioni informative, con la conseguenza della conformità a
Costituzione delle censurate disposizioni. Rileva ricordare, al riguardo, pure l’art. 11 della
Dichiarazione del 1789, secondo cui: «la libera manifestazione dei pensieri e delle opinioni è uno dei
diritti più preziosi dell’uomo; ogni cittadino può dunque parlare, scrivere, stampare liberamente,
salvo rispondere dell’abuso di questa libertà nei casi determinati dalla legge». L’art. 34 della
Costituzione stabilisce, in proposito, che: «la legge stabilisce le norme concernenti (…) i diritti civili
e le garanzie fondamentali accordate ai cittadini per l’esercizio delle libertà pubbliche». Spetta,
dunque, al legislatore stabilire incriminazioni volte a reprimere gli abusi dell’esercizio della libertà
di espressione e di comunicazione, che ledono l’ordine pubblico e i diritti di terzi. Tuttavia, la libertà
di espressione e di comunicazione è tanto più preziosa in quanto il suo esercizio è una condizione
della democrazia e una delle garanzie del rispetto degli altri diritti e libertà. Ne consegue che gli
attacchi all’esercizio di tale libertà devono essere necessari, adeguati e proporzionati all’obiettivo
perseguito. Il legislatore, attraverso queste disposizioni, ha tentato di tutelare il principio
dell’inviolabilità del domicilio, il diritto alla riservatezza e il diritto di proprietà, inteso anche quale
diritto alla protezione dell’intimità, appunto, del domicilio, secondo nuove virtualità di cui in
Costituzione. Anche queste censure vengono, dunque, respinte. Sulle ulteriori disposizioni oggetto
di censura ad opera dei deputati ricorrenti, per sentite ragioni di sintesi, si rinvia al testo
dell’annotata decisione, anche in considerazione del ripetersi delle argomentazioni dianzi esposte.
Contrario alla Costituzione è, invece, ritenuto, dal Consiglio costituzionale, l’art. 7 dell’emananda
legge che, in modifica dell’art. 1244 del codice civile, si prefigge, sostanzialmente, il fine di liberare
il proprietario di un bene immobile occupato illecitamente dal suo obbligo di mantenimento, con
esonero dalla sua responsabilità in caso di danni derivanti dalla mancata manutenzione del bene. In
effetti, la nuova disposizione, così operando, finirebbe con il liberare il proprietario dall’obbligo di
manutenzione della sua proprietà e di scaricare simili oneri sugli «occupanti abusivi», senza tener
conto della circostanza che la maggior parte di questi si trova in situazioni materiali precarie,
ragionevolmente non in grado di far fronte ad oneri manutentivi. Rileva, al riguardo, l’art. 4 della
Dichiarazione del 1789, a tenore del quale: «la libertà consiste nel poter fare tutto ciò che non nuoce
agli altri». Si potrebbe osservare che su questo principio fonda la responsabilità da fatto illecito e
danno alla persona, che obbliga chi lo ha commesso a risarcirlo (si cfr. il nostro art. 2043 c.c.). Il
legislatore non ha il potere di istituire, per ragioni sovraordinate di interesse generale e valore
costituzionale a protezione della persona, regimi di responsabilità irragionevoli e non proporzionali,
quand’anche possa prevedere ipotesi di esonero da responsabilità. Regimi, questi, che
rischierebbero, in assenza di congrui limiti e rimedi, in attacchi sproporzionati al diritto delle vittime
di ottenere un risarcimento per i danni subiti. In quest’ottica, l’articolo 1244 del codice civile
stabilisce che il proprietario di un edificio è automaticamente responsabile del danno cagionato dalla
sua rovina, quando questa derivi da una mancanza di manutenzione o da un difetto di costruzione,
e può essere esonerato da responsabilità solo fornendo la prova che il danno è dovuto a «causa
ignota» o, si può aggiungere, incontrollabile, in sostanza, e con ogni dovuta precisazione e
distinzione, caso fortuito o forza maggiore. In sostanza, le censurate disposizioni prevedono che, se
l’immobile è occupato abusivamente, il proprietario non può essere ritenuto responsabile dei danni
derivanti dalla mancata manutenzione durante il periodo di occupazione e che, in caso di danni
cagionati a terzi, la responsabilità ricade sull’occupante senza titolo. Si tratta, in effetti,
dell’istituzione di un regime di responsabilità automatica in caso di danno causato dalla rovina di
un edificio, quando esso derivi da una mancanza di manutenzione o da un difetto di costruzione, il
legislatore ha inteso agevolare il risarcimento delle vittime. In tal senso, non può escludersi il
perseguimento di un obiettivo di interesse generale. Tuttavia, in primo luogo, il beneficio
dell’esenzione da responsabilità è concesso al proprietario dell’immobile per eventuali danni
verificatisi durante il periodo di occupazione illecita, senza che sia necessario che la causa del danno
derivi o meno dalla mancata manutenzione imputabile all’occupante senza titolo; in secondo luogo,
il proprietario beneficerebbe di questa esenzione senza dover dimostrare che il comportamento
dell’occupante ha ostacolato l’esecuzione di lavori di riparazione o manutenzione necessari per
l’immobile, con rilevanza sotto il profilo causale e della colpa. In terzo luogo, le disposizioni
censurate prevedono che il proprietario sia esente da responsabilità non solo nei confronti
dell’occupante senza titolo, ma anche nei confronti dei terzi. Di conseguenza, se, da un lato, questo
speciale regime di responsabilità automatica mirerebbe a facilitare il risarcimento delle vittime,
tuttavia i terzi potrebbero agire per ottenere il risarcimento del danno subito solo nei confronti del
occupante senza titolo, la cui identità potrebbe risultare difficile accertare (si consideri il caso di un
abbandono repentino dell’immobile occupato, dopo il misfatto); ed inoltre, che non offre,
certamente, le stesse garanzie del proprietario, soprattutto in termini assicurativi. In questo caso, di
conseguenza, i deputati colgono nel segno, in quanto le disposizioni da essi censurate incidono in
modo sproporzionato sul diritto delle vittime ad ottenere il risarcimento del danno derivante dalla
mancata manutenzione di un edificio in rovina. Ne discende la non conformità a Costituzione
dell’art. 7. L’annotata, lunga e complessa, decisione del Conseil constitutionnel presenta indubbio
interesse, onde evocare la necessità di giusti e congrui rimedi, in relazione alla «responsabilità
dell’interprete» (G. Perlingieri, L’inesistenza della distinzione tra regole di comportamento e di validità nel
diritto italo-europeo, Napoli, 2013, p. 84 ss.), a tutela della persona e a protezione del diritto di
proprietà, diritto eversivo, «terribile, e forse non necessario», con le parole di Cesare Beccaria, Dei
delitti e delle pene, XXII. La proprietà sembra porsi «al di sopra o al di là» della distinzione
pubblico/privato, dando luogo ad un «diritto comune che è diritto e basta», nelle riflessioni dell’Illustre
Maestro, Salvatore Pugliatti (Dalle lezioni di Salvatore Pugliatti. Diritto civile e Diritto Amministrativo, a
cura di M. Trimarchi, in Storie dal Fondo raccolte da P. Femia, Napoli, 2017, p. 23). Ma, sempre attuale
il monito di Marx, per il quale «nessun soggetto viene liberato dalla proprietà» (K. Marx, La questione
ebraica (1844), trad. it. a cura di R. Panzieri, Roma, 1969, p. 77 ss.).