Il caso deciso dalla Corte EDU riguarda l’espulsione dalla Bosnia-Erzegovina di un cittadino montenegrino coniugato con una donna bosniaca. L’ordinanza di espulsione era stata disposta dalle autorità nazionali sulla base di informazioni, provenienti dall’agenzia di intelligence nazionale, stando alle quali il ricorrente rappresentava una minaccia per la sicurezza nazionale. Nel ricorso, invocando l’articolo 8 della Convenzione, quest’ultimo ha lamentato l’arbitrarietà dell’ordinanza adottata, formulata peraltro in termini così vaghi e generici da impedirgli una puntuale contestazione. Secondo la consolidata giurisprudenza della Corte di Strasburgo, anche laddove è in gioco la sicurezza nazionale, i concetti di legalità e di Stato di diritto in una società democratica richiedono che le misure che incidono sui diritti umani fondamentali siano oggetto di una qualche forma di procedimento in contraddittorio dinanzi a un organo indipendente, competente a riesaminare i motivi della decisione e la fondatezza delle prove. In proposito, la Corte ha osservato che la Corte di Stato bosniaca ha ritenuto la presenza del ricorrente una minaccia per la sicurezza nazionale senza alcuna verifica circa la credibilità e la veridicità delle prove ad essa presentate dall’agenzia di intelligence nazionale. In ragione di ciò, i giudici di Strasburgo hanno ritenuto che l’ordinanza impugnata costituisse un’ingerenza nell’esercizio del diritto del ricorrente al rispetto della sua vita familiare ed ha ritenuto che sebbene al ricorrente siano state concesse alcune garanzie procedurali, tali garanzie non erano state adeguate e sufficienti a soddisfare i requisiti procedurali dell’articolo 8. Di conseguenza, l’interferenza con il suo diritto al rispetto della sua vita familiare non era conforme alla “legge” con conseguente violazione dell’articolo 8 della Convenzione.
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