La Corte Edu si pronuncia sul caso di un cittadino francese, che all’epoca dei fatti lavorava per una nota società, che fornisce servizi di revisione contabile, consulenza fiscale e gestione aziendale, condannato in sede penale per divulgazione di documenti fiscali relativi ad alcuni clienti del suo datore di lavoro. I tribunali lussemburghesi hanno escluso che il ricorrente potesse essere considerato un “whistleblower” (segnalatore di illeciti), in quanto la divulgazione di documenti soggetti al segreto professionale, aveva causato un danno al datore di lavoro – derivante, in particolare, dal danno alla reputazione dell’azienda e dalla perdita di fiducia del cliente negli accordi di sicurezza interna – sproporzionato rispetto all’interesse pubblico alla diffusione di quelle informazioni. La Corte d’appello aveva inflitto una condanna al pagamento di una multa di 1.000 euro, confermata in Cassazione. Tale condanna secondo il ricorrente equivaleva ad un’interferenza sproporzionata con la sua libertà di espressione. I Giudici Edu, dopo aver ribadito che l’articolo 10 della Convenzione si estende alla sfera professionale, anche quando il rapporto tra datore di lavoro e lavoratore trova la sua disciplina nel diritto privato, hanno, in effetti, ritenuto che la condanna del ricorrente costituisse un’interferenza ai fini dell’articolo 10, interferenza “prescritta dalla legge” e perseguente uno “scopo legittimo”, poiché il ricorrente era stato condannato per vari reati previsti dal codice penale e l’obiettivo di
perseguire e punire tali reati era impedire la divulgazione di informazioni riservate e proteggere la reputazione del datore di lavoro. Quanto alla questione se l’interferenza fosse stata “necessaria in una società democratica”, la Corte ha ritenuto di dover valutare, preliminarmente, se si trattasse di un caso di “whistleblowing” alla luce della sua giurisprudenza. Secondo i Giudici di Strasburgo, nell’escludere che i documenti divulgati dal ricorrente fossero stati di interesse sufficiente per giustificarne l’assoluzione, la Corte d’appello aveva esaminato le prove in causa con attenzione, alla luce dei criteri stabiliti dalla giurisprudenza della Corte. Peraltro, i tribunali nazionali avevano preso in considerazione, come
attenuante, la “natura disinteressata delle azioni [del sig. XXXXX]” ed avevano, quindi, inflitto una sanzione relativamente lieve, inidonea ad avere reale effetto inibente sull’esercizio della libertà del ricorrente o di quella di altri dipendenti. In considerazione del margine di apprezzamento degli Stati contraenti in questo ambito, secondo la Corte i giudici interni avevano trovato un giusto equilibrio nella presente causa tra la necessità di
proteggere i diritti del datore di lavoro del ricorrente, da un lato, e la necessità di tutelare la libertà di espressione di quest’ultimo, dall’altro. Non vi era stata, quindi, violazione dell’articolo 10 della Convenzione.