Sulla nozione di interesse a ricorrere in sede processual-amministrativa (T.A.R. Sicilia, sez. III, sent. 29 aprile 2020, n. 850)

I giudici amministrativi hanno statuito che l’interesse a ricorrere, come condizione dell’azione, va inteso non come idoneità astratta dell’azione medesima a realizzare il risultato perseguito, ma come interesse proprio del ricorrente al conseguimento di un’utilità o di un vantaggio (materiale o, in certi casi, morale), attraverso il processo. In base ai principi generali in materia di condizioni dell’azione, desumibili dall’art. 24, comma 1 Cost. (ai sensi del quale tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi) e dall’art. 100 c.p.c. (ai sensi del quale per proporre una domanda o contraddire alla stessa è necessario avervi un interesse), l’interesse processuale presuppone, nella prospettazione della parte istante, una lesione concreta ed attuale dell’interesse sostanziale dedotto in giudizio e l’idoneità del provvedimento richiesto al giudice a tutelare e soddisfare il medesimo interesse sostanziale. In mancanza dell’uno o dell’altro requisito, l’azione è inammissibile ai sensi dell’art. 35, comma 1, lett. b), c.p.a. L’interesse all’azione deve essere: a) personale, ossia attenere al ricorrente; b) concreto o diretto, nel senso che la lesione deve provenire direttamente dal provvedimento impugnato o dal comportamento su cui verte il giudizio; c) attuale, a tal fine occorrendo che la lesione dello stesso: c1) sia già avvenuta; c2) non necessiti dell’adozione di provvedimenti successivi; c3) non sia dipendente da eventi futuri ed incerti; c4) sia suscettibile di essere riparata dalla sentenza; c4) sussista anche solo al momento della decisione

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