La Corte Costituzionale francese interviene sul potere di disposizione delle azioni del socio di società per azioni: proprietà vs. libertà di esclusione Art. L. 227-16 del Code de commerce (Conseil Constitutionnel, sent. n. 2022-1029 QPC, del 9 dicembre 2022)

Il Conseil Constitutionnel, su ordinanza di rimessione della Corte di cassazione (chambre commerciale, decisione n. 699 del 12 ottobre 2022), è chiamato a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale dell’art. L. 227-16 del Code de commerce, per il quale: «alle condizioni dallo stesso determinate, lo statuto può prevedere che un socio può essere obbligato a trasferire le sue azioni», prosegue il comma 2, «le clausole statutarie di cui agli articoli L. 227-14 e L 227- 16 possono essere adottate o modificate solo con deliberazione assunta collegialmente dai soci alle condizioni e forme previste dallo statuto». Si rimprovera alla disposizione normativa di permettere che un socio sia obbligato a cedere le proprie azioni in applicazione di una clausola statutaria di esclusione alla quale egli non prestato il proprio consenso. La privazione della proprietà delle azioni, conseguente all’esclusione del socio, non troverebbe alcuna giustificazione in ragioni di pubblico interesse, ponendosi, invece, in contrasto con gli artt. 2 e 17 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, per i quali: «il fine di ogni associazione politica è la conservazione dei diritti naturali ed imprescrittibili dell’uomo. Questi diritti sono la libertà, la proprietà, la sicurezza, la resistenza all’oppressione» 8art. 2); «la proprietà essendo un diritto inviolabile e sacro, nessuno può esserne privato, salvo quando la necessità pubblica, legalmente constata, lo esiga in maniera evidente, e previo un giusto e preventivo indennizzo». La censurata disposizione del Code de commerce arrecherebbe, dunque, un grave e non proporzionato, anche perché non sorretta da alcun interesse pubblico effettivo, pregiudizio al diritto di proprietà del socio sulle proprie azioni sociali. Osserva, al riguardo, il Conseil constitutionnel che le disposizioni normative oggetto questione di legittimità costituzionale ineriscono a clausole statutarie di una società per azioni semplifièe e stabiliscono le condizioni per l’acquisto o la vendita delle azioni da parte dei soci. Come dianzi indicato, le contestate disposizioni dell’art. L. 227-16 consentono allo statuto sociale di prevedere che, a determinate condizioni, un socio possa essere obbligato a trasferire le proprie azioni. Inoltre, una simile clausola societaria di esclusione statutaria può essere adottata o modificata senza la necessità dell’unanimità della deliberazione dei soci. Di conseguenza, un socio può essere escluso dalla società e costretto a vendere le proprie azioni, ove necessario secondo le condizioni fissate nello statuto, senza aver prestato il proprio consenso alla previsione statutaria. Il Conseil, tuttavia, non ritiene incostituzionali simili previsioni statutarie per cinque ordini di ragioni. In primo luogo, in quanto non determinano la privazione della proprietà, ma solo l’esclusione del socio. In secondo luogo, si assicura una coesione della compagine societaria ed una continuità nell’attività sociale, attraverso l’applicazione del principio della collegialità a maggioranza dei voti, non l’unanimità dei soci, al fine di evitare «situazioni di stallo» che potrebbero derivare da ingiustificate opposizioni, dando luogo a possibili «abusi da parte delle minoranze». Questione certamente complessa e controversa, ma che non esclude, nella prospettiva del giudizio di costituzionalità della disposizione, il perseguimento di un obiettivo di interesse generale. In terzo luogo, come emerge anche dal costante orientamento della giurisprudenza della Suprema Corte di cassazione, la decisione di escludere un socio può essere assunta solo a seguito di una procedura prevista dallo statuto, per i motivi indicati nello statuto e a condizione che siano rispettate ragioni di interesse sociale, di ordine pubblico e individuali del socio. In quarto luogo, l’esclusione del socio può avvenire soltanto attraverso la vendita delle sue azioni al prezzo fissato dall’art. L. 227-18 del Codice di commercio, in applicazione delle modalità previste dallo statuto sociale o, in mancanza, di comune accordo tra le parti, o secondo quanto stabilito da un esperto nominato alle condizioni previste dall’art. 1843-4 del code civil. Infine, il provvedimento di esclusione può essere impugnato dal socio nella competente sede giurisdizionale, così assicurando il controllo da parte del giudice circa il rispetto delle garanzie, poste dalla legge e dallo statuto, per l’esclusione del socio, il quale può, naturalmente, contestare anche il prezzo di vendita delle sue azioni. In ragione di ciò, secondo la Corte le disposizioni impugnate non pregiudicano in modo sproporzionato il diritto di proprietà, di conseguenza, la questione prioritaria di costituzionalità è da respingere, in quanto conformi a costituzione. Molte altre considerazioni potrebbero essere svolte in argomento, a cominciare con la pure discussa relazione con il sistema del divieto dei patti successori, in termini, dunque, di anticipata regolamentazione pattizia circa alcuni beni (le azioni) che farebbero parte di una futura successione, ma ciò amplierebbe eccessivamente l’indagine. Sempre valido l’invito alla prudenza, quando si ‘maneggia’ il potere di disposizione, tema «delicatissimo; espressione tra le più equivoche», come ci ricorda l’eminente Maestro Salvatore Pugliatti (Saggi di diritto civile, Metodo, teoria e pratica, Milano, 1951, p. 7, che raccoglie i due saggi L’atto di disposizione ed il trasferimento dei diritti del 1927 e Considerazioni sul potere di disposizione del 1940).

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