La Corte EDU sul rispetto del diritto all’identità sessuale (CEDU, CEDU, sez. V, sent. 9 luglio 2020, ric. n. 41701/16)

Con la decisione resa al caso di YT contro la Bulgaria, la Corte EDU si è pronunciata sul ricorso presentato da una cittadina transessuale che ha denunciato la violazione del proprio diritto al rispetto della vita privata di cui all’articolo 8 della Convenzione poiché le era stata negata dalle autorità giudiziarie la possibilità di ottenere la sostituzione del sesso, nonché la modifica di nome, e cognome, nel registro dello stato civile, nonostante la sua identità fisica, sociale e familiare fosse ormai mutata da tempo. La ricorrente affermava inoltre la mancanza di un quadro giuridico adeguato alla valutazione di una simile fattispecie, così lamentando la violazione di un obbligo positivo. Il tribunale distrettuale aveva infatti osservato che la legislazione bulgara sui registri civili definisce entrambi i sessi, maschile e femminile, sulla base delle caratteristiche sessuali realmente esistenti, a nulla rilevando la condizione transessuale del richiedente né tantomeno la sua identità sessuale psichica. Il tribunale regionale confermava integralmente la decisione del tribunale di primo grado, aggiungendo che per gli interventi chirurgici cui la ricorrente si era sottoposta non ne cambiavano il vero sesso, ma solo il suo aspetto e la sua morfologia sessuale; pertanto, l’unica aspirazione socio-psicologica non avrebbe potuto giustificare una decisione in senso favorevole alla riassegnazione del sesso.
Dichiarata la ricevibilità del ricorso, la Corte Edu ricorda che se l’obiettivo dell’articolo 8 della Convenzione è essenzialmente quello di proteggere l‘individuo da interferenze arbitrarie da parte delle autorità pubbliche, esso non pone soltanto un obbligo negativo di impedire simili interferenze, ma anche obblighi positivi inerenti l’effettivo rispetto della vita privata o familiare. Nel giudizio di specie, i giudici di Strasburgo hanno rilevato che l’assenza di una procedura dedicata esclusivamente alla riassegnazione del sesso non ha impedito ai tribunali di esaminare la richiesta della ricorrente. Nel valutare la questione, la Corte ha considerato altresì la volontà della richiedente di sottoporsi ad un intervento chirurgico per completare il processo di conversione sessuale. Di conseguenza, con riferimento a tale profilo, non è in gioco un’interferenza con l’integrità fisica della richiedente, contraria all’Articolo 8 della Convenzione, sebbene siffatto processo avrebbero potuto essere eseguito solo previa decisione del tribunale.
Ciò premesso, la Corte è stata chiamata a stabilire se il rifiuto di accogliere la richiesta della richiedente di modificare la menzione del sesso nei registri civili abbia costituito un’interferenza sproporzionata con il diritto al rispetto della sua vita privata. A tal proposito, i giudici hanno affermato che i tribunali, pur nel rispetto del margine di apprezzamento concesso, non hanno effettuato alcun esercizio per bilanciare il supposto interesse generale alla conservazione del sesso sui registri civili con il diritto della richiedente al riconoscimento della sua identità di genere. Tutto questo, peraltro, avrebbe ingenerato nella ricorrente sentimenti di vulnerabilità, ansia e umiliazione. Pertanto, alla luce di questi elementi, la Corte ha concluso che il rifiuto non adeguatamente motivato delle autorità nazionali di riconoscere legalmente la riassegnazione del sesso ha interferito indebitamente con il diritto della richiedente al rispetto della sua vita privata, ponendosi in evidente contrasto con l’art. 8 della Convenzione.

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