La Corte costituzionale nella sentenza n. 111 ha stabilito che chi è sottoposto a indagini o è imputato
in un processo penale deve essere sempre espressamente avvertito del diritto di non rispondere alle
domande relative alle proprie condizioni personali, dichiarando parzialmente illegittimi gli articoli
64, terzo comma, del codice di procedura penale e l’articolo 495 del codice penale.
Nello specifico, la Corte ha sottolineato come il diritto al silenzio operi ogniqualvolta l’autorità che
procede in relazione alla commissione di un reato “ponga alla persona sospettata o imputata di
averlo commesso domande su circostanze che, pur non attenendo direttamente al fatto di reato,
possano essere successivamente utilizzate contro di lei nell’ambito del procedimento o del processo
penale, e siano comunque suscettibili di avere un impatto sulla condanna o sulla sanzione che le
potrebbe essere inflitta”. La Costituzione e le norme internazionali che tutelano i diritti umani
consentono, ha osservato la Corte, che si possa imporre ad una persona sospettata di aver commesso
un reato il dovere di indicare all’autorità che procede le proprie generalità (nome, cognome, luogo
e data di nascita), ma non anche il dovere di fornire ulteriori informazioni di carattere personale,
non essendovi per l’indagato o l’imputato alcun obbligo di collaborare con le indagini e il processo
a proprio carico. Per garantire una tutela effettiva a questo diritto, è dunque necessario fornire
all’indagato e all’imputato un esplicito avvertimento della facoltà di non rispondere anche a queste
domande; ed è altresì necessario escludere la sua punibilità nel caso in cui egli risponda il falso,
quando non sia stato debitamente avvertito di questa sua facoltà.