Sono illegittimi gli artt. 230 bis e 230 ter nella parte in cui escludono l’applicabilità della disciplina dell’impresa familiare al convivente di fatto (Corte cost., sent. 4 luglio – 25 luglio 2024, n. 148)

Con la sentenza n. 148 del 2024 la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale
dell’art. 230-bis, terzo comma, del codice civile, nella parte in cui non prevede come familiare
anche il «convivente di fatto» e come impresa familiare quella cui collabora anche il «convivente di
fatto»; in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della l. n. 87/1953 (Norme sulla costituzione e sul
funzionamento della Corte costituzionale), ha dichiarato l’illegittimità costituzionale anche dell’art.
230-ter cod. civ. che, introdotto dalla legge n. 76 del 2016 (c.d. legge Cirinnà), riconosceva al
convivente di fatto una tutela significativamente più ridotta. La Corte, pur ribadendo la diversità
tra famiglia di fatto e famiglia fondata sul matrimonio, ha ritenuto che in relazione alla tutela di
diritti fondamentali, quali il diritto al lavoro e alla giusta retribuzione (garantiti dagli artt. 4, 35 e 36
Cost.), sia necessario assicurare un’identità di disciplina tra le due fattispecie. In particolare,
l’esigenza di tutela del lavoro reso nell’impresa familiare, che costituisce la ratio alla base della
disciplina contenuta nell’art. 230-bis c.c., è la medesima sia nell’ipotesi del coniuge che del
convivente di fatto. Pertanto, la Corte rileva la contraddittorietà logica – in relazione all’art. 3 Cost.
– dell’esclusione del convivente da una previsione posta a tutela del diritto al lavoro e dichiara
l’illegittimità costituzionale dell’art. 230-bis, comma 3, c.c., nella parte in cui non prevede come
familiare anche il «convivente di fatto» e come impresa familiare quella a cui collabora il
«convivente di fatto». Infine, per i giudici costituzionali, la dichiarazione di illegittimità
costituzionale va estesa in via consequenziale all’art. 230-ter cod. civ., che attribuisce al convivente
di fatto una tutela dimidiata dal mancato riconoscimento del lavoro «nella famiglia», del diritto al
mantenimento, del diritto di prelazione nonché dei diritti partecipativi, e quindi significativamente
più ridotta rispetto a quella che consegue all’accoglimento della questione sollevata in riferimento
all’art. 230-bis cod. civ..

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