La Corte costituzionale si pronuncia in tema di regime penitenziario per i condannati per “reati ostativi”(Corte costituzionale, sent. 15 maggio 2024, n. 85)

La Corte costituzionale nella sentenza n. 85 ha stabilito che se un detenuto è stato condannato per
un reato compreso nell’elenco dell’art. 4-bis della legge sull’ordinamento penitenziario, ma ha
accesso a tutti i benefici penitenziari, è irragionevole sottoporlo a un regime più restrittivo rispetto
a quello ordinario per quanto riguarda le telefonate con i propri figli minori.
La Corte costituzionale ha, infatti, ricordato che chi è condannato per uno dei “reati ostativi” (reati
elencati nel co. 1 dell’art. 4-bis) è escluso dai benefici penitenziari, in forza della generale presunzione
per cui i collegamenti con l’organizzazione criminale non vengono meno con l’ingresso in carcere
del condannato, con conseguente persistere della sua pericolosità sociale. Questi detenuti, secondo
quanto richiamato dalla Corte, hanno accesso ai benefici, di regola, soltanto quando collaborino con
la giustizia, perché proprio la loro collaborazione costituisce “una sorta di prova legale della rottura
del vincolo associativo rispetto al singolo detenuto, che a sua volta segnala l’inizio del suo percorso
rieducativo”.
La legge prevede varie ipotesi in cui i condannati per reati ostativi possono essere ammessi ai
benefici penitenziari, pur in mancanza di una loro collaborazione con la giustizia, e tra queste c’è
quella di chi (come il detenuto oggetto del procedimento principale) abbia accesso ai benefici perché
la sua collaborazione è stata ritenuta impossibile, e non risultino elementi che attestino un suo
collegamento attuale con la criminalità organizzata.
Nel caso concreto, il detenuto aveva già goduto di permessi premio, concessi sulla base dei suoi
progressi nel trattamento rieducativo attestati dall’amministrazione penitenziaria e, in forza della
normativa speciale adottata durante il periodo della pandemia, aveva fruito di una telefonata al
giorno con i propri familiari, come tutti gli altri detenuti.
Conseguenzialmente la Corte costituzionale ha ritenuto irragionevole sottoporre il condannato a
una disciplina più sfavorevole rispetto a quella applicabile alla generalità dei detenuti. La Corte ha
osservato, infatti, che ogni disciplina (come, nel caso di specie, l’art. 4-bis) che, a parità di pena
inflitta, deroga in senso peggiorativo al regime penitenziario ordinario “può trovare legittimazione
sul piano costituzionale – al cospetto della necessaria finalità rieducativa della pena di cui all’art. 27,
co. 3, Cost. – soltanto in quanto sia necessaria e proporzionata rispetto al contenimento di una
speciale pericolosità sociale del condannato”; e non invece “in chiave di ulteriore punizione in
ragione della speciale gravità del reato commesso. È, infatti, la misura della pena che nel nostro
ordinamento deve riflettere la gravità del reato, non già la severità del regime sanzionatorio”.

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