La Corte costituzionale si pronuncia sul Jobs Act (Corte costituzionale, sent. 24 gennaio 2024, n. 7)

La Corte costituzionale con la sentenza n. 7/2024, ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità
costituzionale degli articoli 3, primo comma, e 10 del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23, il quale,
in attuazione della legge di delega n. 183 del 2014 (cosiddetto Jobs Act), ha introdotto il contratto di
lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio.
In particolare, la legge di delega aveva escluso, per i “licenziamenti economici” di lavoratori assunti
con contratti a tutele crescenti (quindi a partire dal 7 marzo 2015), la possibilità della reintegrazione
del lavoratore nel posto di lavoro, e aveva previsto un indennizzo economico, limitando il diritto
alla reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento
disciplinare ingiustificato. La Corte costituzionale ha ritenuto che il riferimento contenuto nella
legge di delega ai “licenziamenti economici” riguardasse sia quelli individuali per giustificato
motivo oggettivo, sia quelli collettivi. Ha quindi escluso che ci sia stata violazione dei criteri direttivi
della legge di delega.
I giudici costituzionali hanno, inoltre, ritenuto non fondata la censura di violazione del principio di
eguaglianza poiché il riferimento temporale alla data di assunzione consente di differenziare le
situazioni tra i lavoratori assunti fino al 7 marzo 2015 (cd. lavoratori “anziani”) e quelli assunti dopo
tale data (cd. lavoratori “giovani”). Per la Corte costituzionale la nuova disciplina dei licenziamenti
è orientata ad incentivare l’occupazione e a superare il precariato ed è prevista solo per i “giovani”
lavoratori. Il legislatore non era tenuto, sul piano costituzionale, a rendere applicabile questa nuova
disciplina anche a chi era già in servizio.
Infine, la Corte ha ritenuto non inadeguata la tutela indennitaria. Attualmente al lavoratore
illegittimamente licenziato all’esito di una procedura di riduzione del personale spetta un’indennità,
non assoggettata a contribuzione previdenziale, di importo pari al numero di mensilità, dell’ultima
retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, determinato dal giudice
in base ai criteri indicati da questa Corte nella sentenza n. 194 del 2018, in misura comunque non
inferiore a sei e non superiore a trentasei mensilità.

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