La CEDU sul principio di non respingimento dello straniero e sul divieto di espulsioni collettive (CEDU, sez. I, sent. 23 luglio 2020, ric. nn. 40503/17, 42902/17, 43643/17)

Con la decisione in oggetto, la Corte Edu si è pronunciata su tre ricorsi sollevati da alcuni cittadini russi, provenienti dalla Cecenia, contro la Repubblica di Polonia, denunciando la violazione degli artt. 3, 13 e 34 della Convenzione Edu, oltre che dell’art. 4 del Protocollo n. 4 della Convezione. Nella specie, i ricorrenti lamentavano che le autorità polacche si fossero rifiutate di ricevere le domande di protezione internazionale da loro presentate al valico di frontiera polacco-bielorusso di Terespol e Czeremcha-Połowcee e che fossero stati ripetutamente allontanati dal confine polacco sulla base di provvedimenti amministrativi in cui, confutandosi testimonianze e prove documentali fornite alle guardie di frontiera, si affermava che i richiedenti non fossero in possesso dei documenti che avrebbero autorizzato il loro ingresso in Polonia, che non avessero mai dichiarato di essere a rischio di persecuzione nel loro Paese d’origine e che, in realtà, avrebbero cercato di emigrare per motivi prettamente economici o personali. I ricorrenti inoltre, su decisione del governo, venivano respinti in Bielorussia, sebbene gli stessi avessero più volte dimostrato che in quel Paese non avrebbero avuto alcuna reale possibilità di richiedere la protezione internazionale e che si sarebbe paventato il rischio costante di espulsione in Cecenia, con conseguenti minacce di tortura o di altre forme di trattamento disumano e degradante. Peraltro, siffatte decisioni erano state assunte in spregio di alcune misure provvisorie con le quali la Corte Edu, a norma dell’art. 39 del Regolamento, faceva divieto al governo polacco di trasferire i richiedenti in Bielorussia. In primo luogo, con riferimento alla presunta violazione dell’articolo 3 della Convenzione, la Corte Edu ha ribadito il principio, già più volte affermato, secondo il quale il divieto di trattamenti disumani o degradanti costituisce uno dei valori fondamentali delle società democratiche e non ammette deroghe o eccezioni. In molte occasioni, inoltre, i giudici di Strasburgo hanno riconosciuto l’importanza del principio di non respingimento, sottolineando la necessità di apprestare garanzie idonee a proteggere il ricorrente contro il rischio di arbitrario refoulement. La Corte ha ribadito che gli Stati contraenti hanno il diritto, in materia di diritto internazionale consolidato, di controllare l’ingresso, il soggiorno e l’espulsione degli stranieri; tuttavia, l’espulsione di uno straniero è da ritenersi vietata qualora siano provati elementi sufficienti per ritenere che la persona in questione sconterebbe il concreto rischio di subire un trattamento in violazione dell’articolo 3 della Convenzione nel Paese di destinazione, sia esso il Paese di origine oppure un Paese terzo. Peraltro, nel caso di specie, i giudici di Strasburgo hanno riscontrato la mancanza di un’indagine adeguata sui motivi che avrebbero spinto i richiedenti a superare il confine polacco senza considerare le ragioni pure addotte e per le quali in Bielorussia sarebbero stati esposti al rischio di maltrattamenti oltre che di una “chain-refoulement”. Sulla base di questi elementi la Corte ha ritenuto violato l’articolo 3 della Convenzione. In secondo luogo, i ricorrenti lamentavano di essere stati espulsi collettivamente da stranieri, così contrastando con il disposto di cui all’art. 4 del Protocollo n. 4 alla Convenzione che introduce il divieto di espulsioni collettive, con lo scopo di impedire agli Stati di restituire un certo numero di stranieri in mancanza di un accurato esame delle condizioni personali di ciascuno. Secondo la giurisprudenza della Corte, l’espulsione collettiva deve essere intesa come “qualsiasi misura che costringa gli stranieri, in quanto gruppo, a lasciare un paese, tranne quando tale misura è adottata sulla base di un esame ragionevole e obiettivo del caso particolare di ogni singolo straniero del gruppo”. Quanto all’ambito di applicazione, la nozione di straniero di cui alla disposizione in oggetto includerebbe non solo le persone che risiedono legalmente nel territorio di uno Stato, ma anche “tutti coloro che non hanno alcun diritto effettivo alla nazionalità in uno Stato, sia che essi stiano semplicemente attraversando un paese o risiedano o siano domiciliati in esso, sia che siano rifugiati o siano entrati nel paese di propria iniziativa, sia che siano apolidi o che abbiano un’altra nazionalità”. Nel caso di specie, i giudici di Strasburgo hanno ritenuto che le espulsioni praticate dallo Stato polacco potessero definirsi collettive, e ciò argomentando sul presupposto che le decisioni con le quali è stato rifiutato l’ingresso in Polonia non sono state assunte nel rispetto della situazione individuale di ciascuno dei richiedenti, così contrastando con il divieto di cui all’art. 4 del Protocollo. Infine, i ricorrenti hanno lamentato la violazione dell’art. 34 della Convenzione, ai sensi del quale gli Stati contraenti si impegnano ad astenersi da qualsiasi atto o omissione che possa ostacolare l’effettivo esercizio del diritto alla presentazione di un ricorso individuale. In particolare, secondo la giurisprudenza consolidata della Corte, poiché le misure provvisorie di cui all’articolo 39 sono indicate al fine di garantire l’efficacia del diritto di petizione individuale, l’inadempienza di uno Stato a tali misure comporta una violazione del diritto al ricorso individuale. Ciò presupposto, i giudici hanno osservato che, nel caso in esame, il Governo polacco ha continuamente messo in dubbio la possibilità di conformarsi alle misure provvisorie nel frattempo emanate dalla Corte Edu, peraltro contestandone la legittimità; per questa via si sarebbe dunque consumato l’inadempimento dello Stato polacco agli obblighi di cui all’articolo 34 della Convenzione. Di rilievo appare conclusivamente l’opinione dissenziente del giudice Eicke in relazione all’approccio adottato per la valutazione dei danni non pecuniari ai sensi dell’articolo 41 della Convenzione, asserendo che la maggioranza del collegio giudicante non ha adeguatamente considerato la specificità delle condizioni di ciascuno dei ricorrenti, procedendo piuttosto ad un livellamento delle varie posizioni.

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