Con la decisione resa al caso PN c. Germania, la Corte Edu si è pronunciata sul ricorso
di un cittadino tedesco, il quale aveva lamentato la violazione dell’art. 8 CEDU, per aver la polizia di Dresda disposto la raccolta di dati identificativi sulla sua persona (fotografie, compresi possibili tatuaggi, impronte digitali, descrizione del profilo personologico etc.).
La misura, di natura preventiva, trovava giustificazione nella pregressa condotta criminosa del sig. PN, nei cui confronti erano stati avviati diversi procedimenti penali e, dunque, essa valeva a facilitare le indagini in caso di recidiva. Prima di giungere alla Corte EDU la questione era stata scrutinata dal Tribunale amministrativo di Dresda, che aveva respinto il ricorso sollevato dal sig. PN, e, finanche, dal Bundeverfassungsgericht, dichiarandolo irricevibile per insufficiente motivazione.
I giudici di Strasburgo, nel giudicare ammissibile il ricorso hanno proceduto ad esaminare il merito della questione. Preliminarmente è stato ribadito l’ambito oggettivo di tutela coperto dall’art. 8 CEDU, il quale ricomprende e si estende a tutti gli aspetti dell’identità personale di un soggetto. Sicché costituisce interferenza o violazione del diritto al rispetto della vita privata ogni assunzione da parte della polizia di dati personali, fotografie, registrazione di impronte digitali etc. Tuttavia, nel caso di specie, la misura disposta nei confronti del sig. PN è apparsa – all’esito di un giudizio concreto – giustificata, in quanto: a) prevista e conforme alla legge (e, in particolare, all’art. 81 ter del codice di procedura penale tedesco che enumera con alto grado di precisione il tipo di dati identificativi che possono essere raccolti); b) volta a perseguire le finalità ex art. 8, par. 2 CEDU (prevenzione criminalità); c) pertinente ed adeguata a conciliare l’interesse pubblico e quello individuale anche sulla base di una
valutazione discrezionale, rimessa alle autorità di polizia, circa l’opportunità della raccolta di dati utili per future indagini. Per conseguenza la Corte Edu ha ritenuto la misura impugnata “un’interferenza proporzionata” rispetto al diritto garantito dall’art. 8 CEDU, e, quindi, insussistente la violazione dell’articolo 8 della Convenzione.