La sentenza in epigrafe torna ad affermare, in materia di espropriazione per pubblica utilità, che: “l’intervenuta realizzazione dell’opera pubblica non fa venire meno l’obbligo dell’amministrazione di restituire al privato il bene illegittimamente appreso; e ciò indipendentemente dalle modalità – occupazione acquisitiva o usurpativa – di acquisizione del terreno; per tali ragioni, il proprietario del fondo illegittimamente occupato dall’amministrazione, ottenuta la declaratoria di illegittimità dell’occupazione e l’annullamento dei relativi provvedimenti, può legittimamente domandare, nel giudizio di ottemperanza, sia il risarcimento, sia la restituzione del fondo sia la sua riduzione in pristino. La realizzazione dell’opera pubblica sul fondo illegittimamente occupato è in sé, quindi, un mero fatto, non in grado di assurgere a titolo dell’acquisto, come tale inidoneo a determinare il trasferimento della proprietà, per cui solo il formale atto di acquisizione dell’amministrazione può essere in grado di limitare il diritto alla restituzione, non potendo rinvenirsi atti estintivi (rinunziativi o abdicativi, che dir di voglia) della proprietà in altri comportamenti, fatti o contegni”.
Pertanto, l’istituto dell’accessione invertita pare essere ormai definitivamente tramontato, anche sulla spinta della giurisprudenza della Corte di Giustizia. Ciò nondimeno, la pubblica amministrazione, una volta realizzata l’opera, ha comunque la facoltà di acquisire il terreno (o, per meglio dire, di “legalizzare l’illegalità”) applicando l’art. 42 bis del DPR n. 327/2001 (cd. acquisizione sanante), recentemente dichiarato legittimo dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 71/2015.
In conclusione, ci si trova di fronte ad una soluzione tutta italiana in cui si sacrifica il diritto dominicale del proprietario, nonostante abbia avuto luogo un procedimento ablativo illegittimo. Sul punto potrebbe fare chiarezza un nuovo intervento della giurisprudenza comunitaria.