La CEDU su multe ad avvocati islandesi per oltraggio alla Corte e ‘criteri Engel’ (CEDU, Grande Camera, sent. 22 dicembre 2020, ric. n. 68273/14 e 68271/14)

La Corte Edu si pronuncia sul caso di due cittadini islandesi, nominati, nel marzo 2012, avvocati difensori di due imputati in un processo penale. Nell’aprile 2013 i due avvocati chiedevano la revoca della loro nomina, sostenendo, tra l’altro, di non essere stati informati in tempo utile del termine per presentare le loro memorie alla Corte, di non aver ricevuto copia delle memorie predisposte dall’accusa e di non aver avuto adeguato accesso a documenti importanti. Lo stesso giorno, il tribunale distrettuale rifiutava di revocare tali nomine, in quanto il procedimento avrebbe subìto un inevitabile ritardo. In risposta, i ricorrenti informavano la corte che non avrebbero partecipato all’udienza prevista per l’11 aprile 2013. Il giorno dell’udienza gli imputati intervenivano con altri avvocati ed il processo veniva rinviato a data da destinarsi. L’accusa, sostenendo che la rinuncia al mandato dei ricorrenti fosse finalizzata proprio a ritardare il procedimento, aveva chiesto per loro una sanzione per oltraggio alla corte. Nel dicembre 2013, quando è stata emessa la sentenza del tribunale distrettuale contro i loro ex clienti, i ricorrenti sono stati condannati, in contumacia, a pagare una multa di circa 6.200 euro ciascuno, per oltraggio alla corte e per aver causato un indebito ritardo nel procedimento. I ricorrenti, tuttavia, non erano mai stati convocati, né informati che il tribunale distrettuale stava valutando di irrogare loro una sanzione. Nel maggio 2014 la Corte Suprema ha confermato la sentenza del tribunale distrettuale in merito alle multe inflitte ai ricorrenti, ritenendo, tra l’altro, che il loro comportamento non fosse stato conforme alla legge, né all’interesse dei loro clienti, né a quello degli altri imputati. La Corte Suprema ha ritenuto che, rifiutandosi di difendere i propri clienti, i
ricorrenti avessero commesso una grave violazione degli obblighi imposti loro dal Criminal Procedure Act. Di qui la scelta di adire la Corte Edu, denunciando la violazione dell’art. 6 §§ 1 e 3 (diritto a un equo processo) della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, per essere stati processati e
condannati in contumacia dal tribunale distrettuale di Reykjavík, in un contesto di violazioni procedurali cui nemmeno la Corte Suprema aveva posto rimedio. Sotto altro profilo, i ricorrenti hanno lamentato la violazione dell’art. 7 § 1 (nessuna punizione senza legge), affermando di essere stati ritenuti colpevoli di un fatto che non costituiva reato ai sensi del diritto nazionale e che la sanzione loro inflitta non era prevedibile. I ricorsi sono stati presentati alla Corte europea dei diritti dell’uomo il 16 ottobre 2014. Nella sentenza del 30 ottobre 2018, la Corte (sezione II), ha escluso, all’unanimità, la sussistenza delle violazioni denunciate. Il 25 gennaio 2019 i ricorrenti hanno chiesto il rinvio del caso alla Grande Camera ai sensi dell’art. 43 (deferimento alla Grande Camera), richiesta accettata il 6 maggio 2019. Con la sentenza in oggetto, la Grande Camera ha deciso il caso. Sul primo profilo, la violazione dell’art. 6 (diritto a un processo equo), la Corte ha ritenuto che fosse necessario esaminare se il procedimento in questione riguardasse una “accusa penale” contro i ricorrenti, ai sensi dell’art. 6 della Convenzione o meno. A questo proposito, ha ribadito di dover prendere in considerazione a tal fine tre criteri, comunemente noti come “criteri Engel” (Engel and Others v. the Netherlands, 8 giugno 1976, § 82): 1) qualificazione giuridica del reato ai sensi del diritto nazionale; 2) natura del reato; 3) natura e grado di severità della sanzione. In ordine al primo criterio, la Corte riconosce il riferimento normativo nel Capitolo XXXV, intitolato
“Sanzioni procedurali”, del Criminal Procedure Act. In particolare, la sezione 222 § 1 prevede che lo speciale procedimento, attivabile per oltraggi alla corte, non richieda il coinvolgimento del pubblico ministero: è stato il tribunale adìto in causa che ha inflitto d’ufficio la sanzione. Di conseguenza, la Corte ha ritenuto che non fosse dimostrato che la condotta in questione fosse classificata come “reato penale” dal diritto interno. In relazione al secondo criterio (natura del reato), i Giudici di Strasburgo osservano che i ricorrenti sono stati accusati di “causare intenzionalmente un indebito ritardo di un caso” e di “offendere la dignità del tribunale con la loro condotta in udienza”. La multa inflitta era stata prevista dalla sezione 223 (1), una disposizione che riguardava una specifica categoria di persone in possesso di uno status particolare, vale a dire quello di “Procuratore dello Stato, difensore o consulente legale”. La Corte ha ribadito che lo status specifico degli avvocati, in quanto intermediari tra il pubblico ed i tribunali, ha dato loro una posizione centrale nell’amministrazione della giustizia: i primi per avere fiducia nell’amministrazione della giustizia, devono anche avere fiducia nella capacità degli esercenti la professione legale di fornire una rappresentanza efficace. Ha anche ribadito che norme che consentono a un tribunale di sanzionare la condotta disordinata nei procedimenti dinanzi ad esso, sono presenti in tutti gli ordinamenti giuridici degli Stati contraenti. Le misure disposte dai tribunali in base a tali norme sono volte a garantire il corretto e ordinato funzionamento dei propri procedimenti e, quindi, più simili all’esercizio dei poteri disciplinari, che all’imposizione di una pena per la commissione di un reato. Infine, in ordine al terzo criterio (natura e grado di severità della sanzione), la Corte ha dovuto interpretare la portata della nozione di “Crimine” nel senso autonomo dell’art. 6 della Convenzione. Nel caso di specie, ha osservato, in primo luogo, che il tipo di comportamento scorretto per il quale i ricorrenti erano stati ritenuti responsabili non poteva essere sanzionato con la reclusione; che le sanzioni in questione non potrebbero essere convertite in privazione della libertà in caso di mancato pagamento; che non sono state registrate nei casellari giudiziari dei ricorrenti. In secondo luogo, ha ritenuto che, sebbene elevata, l’entità delle multe inflitte ai ricorrenti non fosse sufficiente a configurare la sanzione come “criminale” nel significato autonomo dell’art. 6 della Convenzione. In conclusione, la Corte ha ritenuto che il procedimento in questione non avesse riguardato una “accusa penale” ai sensi dell’art. 6 della Convenzione, disposizione che non trova applicazione ai procedimenti che non afferiscono alla sfera penale. Questa parte della domanda è stata, pertanto, considerata incompatibile ratione materiae con le disposizioni della Convenzione ed inammissibile ai sensi dell’art.35 §§ 3 (a) e 4. Analogamente è stato statuito anche in relazione alle allegate violazioni dell’art. 7 (nessuna punizione senza legge).

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