La CEDU sul rifiuto di rilasciare un passaporto a causa di un debito insoluto (CEDU, sez. II, sent. 8 dicembre 2020, ric. n. 26764/12)

La Corte Edu si pronuncia sul caso di Victor Rotaru, cittadino moldavo, al quale le autorità nazionali avevano a lungo negato il rilascio di un passaporto, a causa di un suo debito non pagato ad una banca. Inutile l’esperimento dei rimedi interni contro tale rifiuto. I Giudici di Strasburgo osservano che le autorità avevano fondato la misura contestata sulle
previsioni della Legge n. 269/1994, che in effetti consentiva di rifiutare il rilascio del passaporto in caso di debito insoluto da parte del richiedente.
Tuttavia, la circostanza che non fosse specificata la durata del divieto di ottenere un nuovo passaporto e che non fosse stato effettuato in alcun momento un riesame in merito alla proporzionalità della misura, configurava il rifiuto dell’organo amministrativo quale provvedimento automatico, imposto a tempo indeterminato. A questo proposito, i Giudici di Strasburgo hanno sottolineato la contrarietà di un divieto automatico di viaggiare rispetto agli obblighi che incombono sulle autorità statali ai sensi
dell’articolo 2 del Protocollo n. 4. La Corte è, quindi, passata a verificare se almeno i giudici interni avessero verificato la liceità e la proporzionalità della misura, tanto più che il provvedimento impugnato era stato adottato circa 12 anni dopo la sentenza che ordinava al ricorrente di rimborsare il debito de quo, ed in assenza di qualsiasi procedura di esecuzione pendente.
La Corte ha ritenuto che i tribunali nazionali si fossero limitati a convalidare la misura contestata rilevandone la conformità alle previsioni della Legge n. 269, senza, tuttavia, verificare la compatibilità del rifiuto di rilasciare un passaporto con le disposizioni sull’esecuzione giudiziaria
delle sentenze, che fissano un termine di tre anni per la presentazione di un ordine esecutivo. In ogni caso, i Giudici di Strasburgo hanno osservato che i tribunali nazionali non avevano analizzato la situazione personale del ricorrente, né la questione se l’interferenza con la sua libertà di movimento fosse proporzionata. Di conseguenza, la Corte ha ritenuto che il ricorrente fosse stato sottoposto a una misura di natura automatica, di durata indefinita e senza rivalutazione effettiva e periodica, elementi sufficienti per concludere che la normativa nazionale, come applicata nella causa di specie, non aveva fornito al ricorrente sufficienti garanzie procedurali per prevenire il rischio di un abuso di potere da parte delle autorità, con conseguente privazione della protezione necessaria contro l’arbitrio, richiesta dai principi dello Stato di diritto nell’ambito di una società democratica. Di qui, la conclusione che l’ingerenza nel diritto del ricorrente alla libertà di movimento non era stata “conforme alla legge”, con conseguente violazione dell’articolo 2 del Protocollo n. 4.

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