La CEDU su trattamenti sanitari contrari alla dignità umana (CEDU, sez. II, sent. 15 settembre 2020, ric. n. 45439/18)

Con la decisione in oggetto, la Corte EDU si è pronunciata sul ricorso presentato contro il Regno di Danimarca dal Sig. Aggerholm il quale, affetto da schizofrenia paranoica, era stato costretto ad un ricovero in un ospedale psichiatrico dopo essere stato condannato per alcuni episodi di violenza e minaccia. Il ricorrente, tuttavia, denunciava la violazione dell’art. 3 della Convenzione poiché, all’atto del ricovero, egli era stato legato ad un letto di contenzione per circa ventitré ore. L’illegittimità della misura cui il ricorrente era stato sottoposto veniva altresì accertata dal Consiglio per i reclami dei pazienti psichiatrici dinanzi al quale il Sig. Aggerholm aveva esposto formale denuncia. Ciononostante, l’amministrazione statale negava ogni diritto al risarcimento del danno morale patito dal ricorrente asserendo che, nel caso di specie, alcuna violazione dell’art. 3 della Convenzione si fosse verificata. In tale direzione convergevano pure le decisioni del tribunale e della Corte suprema della Danimarca orientale, ritenendosi che l’applicazione della misura di costrizione fosse stata necessitata dall’esigenza di tutelare il personale e gli altri pazienti del reparto psichiatrico dallo stato di rabbia in cui versava il ricorrente. Nel merito, la Corte EDU ha in primo luogo ricordato che un maltrattamento, per essere considerato tale ai sensi dell’art. 3 della Convenzione, deve raggiungere un livello minimo di gravità la cui valutazione può essere condizionata da una serie di circostanze quali, tra le altre, la durata del trattamento, i suoi effetti fisici e mentali, il sesso, l’età e lo stato di salute della vittima nonché lo scopo per il quale il trattamento è stato inflitto. Con particolare riferimento alle persone affette da una patologia psichiatrica, stante la peculiare vulnerabilità di queste ultime, la Corte EDU ha affermato che, in linea di principio, il ricorso alla forza fisica, non strettamente necessitata dalla loro condotta, scalfisce la dignità umana e, come tale, importa una violazione del diritto di cui all’articolo 3 della Convenzione. I giudici di Strasburgo, inoltre, colgono l’occasione di ribadire come la posizione di inferiorità e impotenza, propria dei pazienti ricoverati negli ospedali psichiatrici, richieda una maggiore vigilanza nel verificare se la Convenzione sia stata rispettata. Pertanto, sebbene competa alle autorità mediche il compito di decidere sulla scelta dei metodi terapeutici da praticare ciò non esclude che alla Corte permanga il potere di accertare che il ricorso a misure di costrizione fisica sia stato adeguatamente ponderato circa la loro necessaria imposizione, specie considerando come tali misure debbano essere adottate soltanto come extrema ratio e cioè quando la loro applicazione sia l’unico mezzo disponibile per prevenire danni immediati o imminenti al paziente o ad altri. Nel caso di specie, la Corte EDU ritiene che l’immobilizzazione del ricorrente sia stata effettivamente praticata come ultima ratio, trattandosi dell’unica misura sufficiente a impedire il verificarsi di un pregiudizio ai danni del personale o degli altri degenti della struttura. La Corte tuttavia puntualizza come, in aggiunta a ciò, occorra valutare la legittimità della durata della pratica di immobilizzazione, protrattasi per quasi ventitré ore sul presupposto che il ricorrente fosse stato ritenuto ancora “potenzialmente” pericoloso per altre persone a causa della sua rabbia istintiva. A tal proposito, i giudici di Strasburgo precisano come un pericolo “potenziale” non sia sufficiente per stabilire che esso sia immediato o imminente, tale da giustificare una durata così estesa della misura di costrizione. Ciò considerato, unitamente alla valutazione di altri elementi, la Corte conclude nel senso di ritenere che la continuazione e la durata della misura di restrizione non fosse strettamente necessaria, così violando la dignità umana del ricorrente che è stato esposto al dolore e alla sofferenza indotte dalla pratica di contenimento, in violazione dell’Articolo 3 della Convenzione.

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