La CEDU su stranieri e identità di genere in Ungheria (CEDU, sez. IV, sent. 16 luglio 2020, ric. n. 40888/17)

La Corte Edu si pronuncia sul caso di un transgender iraniano, il quale aveva ottenuto l’asilo in Ungheria, ma non gli era stato consentito di accedere alla procedura legale ivi prevista per il mutamento di genere e di nome, per il fatto di non possedere un certificato di nascita ungherese. Ed
invero, l’unico strumento legale in tale direzione era la modifica nel registro delle nascite, ma non essendo stata registrata in Ungheria la sua nascita, la domanda non poteva essere esaminata dall’ufficio dell’anagrafe. Il ricorrente dopo aver impugnato tale diniego innanzi ai tribunali interni,
che avevano rigettato il suo ricorso, aveva adito anche la Corte costituzionale. Il giudice costituzionale, constatato che il giudice interno non aveva potuto accogliere il ricorso a causa dell’assenza nella legge di qualsiasi previsione circa la modifica dei nomi e del genere dei cittadini
non ungheresi, ha giudicato incostituzionale tale omissione legislativa ed ha invitato il Parlamento a trovare una soluzione per consentire alle persone legalmente residenti in Ungheria, ma prive di certificato di nascita ungherese, di cambiare nome, ad esempio inserendo la modifica del nome su altri documenti ufficiali rilasciati dalle autorità ungheresi. Tale modifica legislativa richiesta dalla Corte costituzionale non è, tuttavia, ancora intervenuta. I Giudici di Strasburgo hanno esaminato il caso dal punto di vista dell’obbligo positivo dello Stato di garantire il diritto del ricorrente al rispetto della sua vita privata, ribadendo la sua giurisprudenza su tale questione. Secondo la Corte Edu, infatti, nel bilanciare gli interessi in gioco in gioco, gli Stati hanno una discrezionalità limitata (“margine di apprezzamento”) quando si tratta di aspetti essenziali dell’intimità delle persone, come, appunto, l’identità di genere. La Corte Edu ha preso atto delle conclusioni del giudice costituzionale sull’esistenza di una lacuna
legislativa, che ha escluso tutti i non ungheresi legalmente residenti dall’accesso alla procedura di modifica del nome e di riconoscimento del genere, indipendentemente dalle circostanze, ritenendo che si tratti di una limitazione sproporzionata del loro diritto alla dignità umana. Inoltre, la Corte ha stigmatizzato il fatto che le autorità avessero respinto la domanda del ricorrente per motivi puramente formali, senza esaminare la sua personale situazione, senza quindi soppesare gli interessi in gioco. In particolare, non avevano tenuto conto del fatto che gli era stato concesso
l’asilo proprio a causa delle persecuzioni subite nel suo paese di origine per la sua transessualità. Senza dubbio, garantire l’accesso ad una procedura per il riconoscimento legale del genere a persone prive di certificati di nascita ungheresi, attraverso un esame di merito delle loro istanze, può
rappresentare un aggravio amministrativo per le autorità statali. Tuttavia, ciò non poteva di per sé giustificare un rifiuto incondizionato della domanda del ricorrente. Di qui la conclusione che non era stato trovato un giusto equilibrio tra l’interesse pubblico ed il diritto del ricorrente al rispetto della sua vita privata, con conseguente violazione dell’art. 8 CEDU.

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