La Corte costituzionale si pronuncia sulle condotte del senatore Giovanardi (Corte costituzionale, sent. 13 dicembre 2013, n. 218)

Nella sentenza 218 la Corte costituzionale ha affermato che le condotte del senatore Giovanardi
riferibili alle imputazioni di cui agli artt. 326 (rivelazione ed utilizzazione di segreti d’ufficio), 336
(violenza o minaccia a un pubblico ufficiale) e 338 (violenza o minaccia ad un Corpo politico, amministrativo o giudiziario o ai suoi singoli componenti) cod. pen. non possono essere inquadrate
nella nozione di opinione espressa nell’esercizio della funzione parlamentare e, pertanto, non
spettava al Senato deliberare la loro insindacabilità.
In particolare, nel ricorso il Tribunale di Modena ricorrente faceva riferimento a «minacce sia dirette
che indirette, tese: i) a turbare le attività di un Corpo amministrativo; ii) a costringere i pubblici
ufficiali destinatari di tali condotte, a compiere atti contrari all’ufficio»; nonché all’aver «adoperato
informazioni precise e circostanziate, ancora coperte da segreto, aventi ad oggetto i relativi
procedimenti amministrativi», fornite al Senatore «da appartenenti agli uffici di prefettura»,
coimputati nel processo.
La Corte costituzionale ha ricordato che l’art. 68, primo comma, Cost. abbraccia, oltre ai voti dati e
alle opinioni espresse in Parlamento, anche condotte tenute extra moenia, purché ascrivibili alla
nozione di opinioni espresse nell’esercizio delle funzioni parlamentari. La ratio della norma di cui
all’art. 68, primo comma, è preservare la libertà della funzione parlamentare e la sua autonomia.
Per converso, sono avulse dalla citata ratio e sono estranee alla prerogativa della insindacabilità
tanto le opinioni non correlate sul piano temporale e contenutistico con atti parlamentari, quanto le
condotte che non possono neppure qualificarsi quali opinioni e che, pertanto, esulano ex se
dall’esercizio della funzione parlamentare. Simili condotte «dilaterebbero il perimetro
costituzionalmente tracciato, generando un’immunità non più soltanto funzionale, ma, di fatto,
sostanzialmente “personale”, a vantaggio di chi sia stato eletto membro del Parlamento.
Le condotte inquadrate dall’autorità giudiziaria nelle fattispecie di cui agli artt. 336 cod. pen.
(violenza o minaccia a pubblico ufficiale) e 338 cod. pen. (violenza o minaccia ad un Corpo politico,
amministrativo o giudiziario o ai suoi singoli componenti) non sono, in particolare, riconducibili alla
nozione di espressione di una opinione. Infatti, al fine di ricomprendere le condotte di un
parlamentare nell’alveo dell’art. 68, primo comma, Cost., non è sufficiente che esse abbiano quale
comune ispirazione teleologica quella di confortare e di dare sostegno a una opinione del
componente di una Camera, sia pure corrispondente a quanto da questi affermato in atti
parlamentari.
La Corte costituzionale ha, inoltre, affermato che la prospettazione di un male al fine di coartare la
volontà di un pubblico ufficiale o di un esponente di un Corpo politico o amministrativo, onde
costringerlo a compiere un atto contrario ai propri doveri d’ufficio, è una condotta che – ove provata – integrerebbe un tipo di dichiarazione che non è espressiva di alcuna opinione, bensì è puro
strumento di coercizione, alternativo alla violenza, sì da rilevare alla stregua di un mero
comportamento.
D’altro canto, non è compatibile, sul piano funzionale, con la prerogativa della insindacabilità,
finalizzata a preservare l’autonomia del potere politico, il ricorso a condotte coercitive rispetto
all’esercizio di altri poteri dello Stato. Non è dato rivendicare la prerogativa della insindacabilità e,
dunque, difendere l’autonomia della funzione parlamentare rispetto a condotte vòlte a far deviare
dai doveri d’ufficio esponenti di altri poteri dello Stato e a comprimere la loro discrezionalità.

Redazione Autore