La Corte costituzionale si pronuncia sul consenso dell’uomo nella procreazione medicalmente assistita (Corte costituzionale, sent. 24 luglio 2023, n. 161)

Con la sentenza n. 161 del 2023 la Corte costituzionale è stata chiamata a valutare la legittimità della
previsione che, nell’ambito della procreazione medicalmente assistita, stabilisce la irrevocabilità del
consenso dell’uomo dopo la fecondazione dell’ovulo. La Corte ha ritenuto non fondata la questione
sollevata, giudicando non irragionevole il bilanciamento operato dal legislatore nel censurato art. 6,
comma 3, ultimo periodo, della legge n. 40 del 2004 che rende possibile, per effetto della
crioconservazione, la richiesta dell’impianto degli embrioni non solo a distanza di tempo ma anche
quando sia venuto meno l’originario progetto di coppia.
Infatti, nel caso del giudizio a quo la donna aveva richiesto l’impianto dell’embrione crioconservato,
nonostante nel frattempo fosse intervenuta la separazione dal coniuge. Questo si è opposto ritirando
il consenso precedentemente prestato, ritenendo di non poter essere obbligato a diventare padre. Il
giudice ha quindi sollevato la questione di costituzionalità in riferimento alla suddetta norma che
stabilisce l’irrevocabilità del consenso.
Pur riconoscendo che la norma «si è venuta a collocare al limite di quelle che sono state definite
“scelte tragiche” […], in quanto caratterizzate dall’impossibilità di soddisfare tutti i confliggenti
interessi coinvolti nella fattispecie», la sentenza ha evidenziato che l’irrevocabilità del consenso
appare funzionale a salvaguardare innanzitutto preminenti interessi. L’accesso alla PMA comporta
infatti «per la donna il grave onere di mettere a disposizione la propria corporalità, con un
importante investimento fisico ed emotivo in funzione della genitorialità che coinvolge rischi,
aspettative e sofferenze, e che ha un punto di svolta nel momento in cui si vengono a formare uno o
più embrioni. Corpo e mente della donna sono quindi inscindibilmente interessati in questo
processo, che culmina nella concreta speranza di generare un figlio, a seguito dell’impianto
dell’embrione nel proprio utero. A questo investimento, fisico ed emotivo, che ha determinato il
sorgere di una concreta aspettativa di maternità, la donna si è prestata in virtù dell’affidamento in
lei determinato dal consenso dell’uomo al comune progetto genitoriale».
Inoltre, «se è pur vero che dopo la fecondazione la disciplina dell’irrevocabilità del consenso si
configura come un punto di non ritorno, che può risultare freddamente indifferente al decorso del
tempo e alle vicende della coppia, è anche vero che la centralità che lo stesso consenso assume nella
PMA, comunque garantita dalla legge, fa sì che l’uomo sia in ogni caso consapevole della possibilità
di diventare padre; ciò che rende difficile inferire, nella fattispecie censurata dal giudice a quo, una
radicale rottura della corrispondenza tra libertà e responsabilità». La sentenza ha quindi concluso
che «[o]ve, dunque, si considerino la tutela della salute fisica e psichica della madre, e anche la dignità dell’embrione» risulta non irragionevole la compressione, in ordine alla prospettiva di una
paternità, della libertà di autodeterminazione dell’uomo.
La sentenza ha infine precisato che la ricerca di un eventuale diverso punto di equilibrio tra le
contrapposte esigenze in gioco non può che spettare al legislatore.

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