La Corte Costituzionale dichiara illegittime le disposizioni che obbligano il giudice a punire con il carcere il reato di diffamazione a mezzo della stampa o della radiotelevisione. È costituzionalmente compatibile la previsione di sanzioni detentive solo in casi eccezionali (Corte cost., sent. 22 giugno – 12 luglio 2021, n. 150)

Con ordinanza n. 132 del 2020, la Corte costituzionale aveva ritenuto necessaria e urgente, alla luce della giurisprudenza della Corte EDU e della stessa giurisprudenza costituzionale in tema di libertà di espressione, una complessiva rimeditazione del bilanciamento – attualmente cristallizzato nella normativa relativa alle sanzioni detentive in caso di reato di diffamazione a mezzo stampa – tra libertà di manifestazione del pensiero e tutela della reputazione individuale. Ha specificamente giudicato opportuno, «in uno spirito di leale collaborazione istituzionale e nel rispetto dei limiti delle proprie attribuzioni, rinviare la decisione delle questioni […] sottopostele a una successiva udienza, in modo da consentire al legislatore di approvare nel frattempo una nuova disciplina».
In mancanza dell’auspicato intervento del legislatore, all’udienza del 22 giugno 2021, le parti hanno insistito per l’accoglimento delle conclusioni già rassegnate in atti. La Corte ha così deciso che l’art. 13 della legge sulla stampa (n. 47 del 1948), che prevedeva la necessaria applicazione della reclusione da uno a sei anni per il reato di diffamazione commessa a mezzo della stampa e aggravata dall’attribuzione di un fatto determinato, è costituzionalmente illegittimo, al pari dell’art. 30, co. 4, l. n. 223 /1990 sul sistema radiotelevisivo pubblico e privato che estendeva le sanzioni previste dall’articolo 13 della legge sulla stampa alla diffamazione commessa per mezzo della radio o della televisione. La minaccia dell’obbligatoria applicazione del carcere può produrre, infatti, l’effetto di dissuadere i giornalisti dall’esercizio della loro cruciale funzione di controllo dell’operato dei pubblici poteri.
Tuttavia, non è di per sé incompatibile con la Costituzione né con la CEDU che il giudice applichi la pena del carcere a chi, ad esempio, si sia reso responsabile di “campagne di disinformazione condotte attraverso la stampa, Internet o i social media, caratterizzate dalla diffusione di addebiti gravemente lesivi della reputazione della vittima, e compiute nella consapevolezza da parte dei loro autori della – oggettiva e dimostrabile – falsità degli addebiti stessi”. “Chi ponga in essere simili condotte – eserciti o meno la professione giornalistica – certo non svolge la funzione di ‘cane da guardia’ della democrazia, che si attua paradigmaticamente tramite la ricerca e la pubblicazione di verità ‘scomode’; ma, all’opposto, crea un pericolo per la democrazia”, anche per i possibili effetti distorsivi di tali condotte sulle libere competizioni elettorali. Pertanto, è stato escluso il contrasto con la Costituzione dell’art. 595, co. 3, cod. pen., che prevede, in alternativa fra loro, la pena della reclusione da sei mesi a tre anni ovvero della multa in caso di condanna per diffamazione commessa a mezzo della stampa o di altro mezzo di pubblicità. La Corte ha peraltro sottolineato che il legislatore resta libero, nella sua discrezionalità, di assicurare una tutela effettiva del diritto fondamentale alla reputazione individuale anche rinunciando del tutto alla pena detentiva. E ha ribadito comunque la necessità, già evidenziata con l’ordinanza n. 132
del 2020, di una complessiva riforma della disciplina vigente, allo scopo di “individuare complessive strategie sanzionatorie in grado, da un lato, di evitare ogni indebita intimidazione dell’attività giornalistica, e, dall’altro, di assicurare un’adeguata tutela della reputazione individuale contro illegittime aggressioni poste in essere nell’esercizio di tale attività”.

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