Nella causa Shlykov e altri contro la Federazione Russa i ricorrenti hanno lamentato la violazione degli articoli 3 e 6 par. 1, CEDU. Le parti – condannate all’ergastolo – hanno denunciato di aver subito un trattamento degradante, per esser state sottoposte ad ammanettamento sistematico e prolungato durante gli spostamenti dalle rispettive celle. E ciò sol per essere stati condannati all’ergastolo e non anche per motivi inerenti la loro effettiva condotta all’interno del carcere. Due, dei quattro ricorrenti, avevano sollevato ricorso innanzi alle autorità giudiziarie nazionali, le quali avevano ritenuto la misura giustificata, senza – però – stabilire se la necessità dell’applicazione della stessa fosse stata opportunamente valutata dalla competente commissione penitenziaria. All’uopo il Servizio federale per l’esecuzione delle sentenze, riprendendo un precedente del Tribunale distrettuale di Sol- Iletskiy, aveva riferito che tale misura di contenzione fosse da ritenersi fondata se applicata per finalità securtive e solo per brevi periodi di tempo, e non risultasse umiliante per i detenuti. Nel ricorso innanzi alla Corte EDU, il Governo russo ha sostenuto che le misure adottate erano state pienamente giustificate dalla gravità dei reati commessi dai ricorrenti, dalla pericolosità della loro condotta e, infine, dalla necessità di mantenere ordine e disciplina entro le mura carcerarie. La Corte EDU, investita della causa, ha ribadito che l’art. 3 della Convenzione incarna uno dei valori più fondamentali della società democratica. Esso vieta in termini assoluti la tortura o i trattamenti inumani o degradanti, prescindendo dalla condotta della vittima. Accanto a questa premessa, di tono più generale, i giudici di Strasburgo hanno ribadito che la sofferenza e l’umiliazione – per ricevere tutela convenzionale – devono in ogni caso andare oltre quell’inevitabile elemento di sofferenza e umiliazione insito alla detenzione stessa. Inoltre, che spetta allo Stato garantire al detenuto condizioni carcerarie compatibili con il rispetto della dignità umana e che la modalità di esecuzione della pena non deve creare un disagio di intensità superiore a quello connesso alla carcerazione. Riguardo poi alle misure di contenzione, la Corte ha ribadito che il sistematico ammanettamento di un condannato fuori dalla sua cella è di per sé considerato un trattamento degradante se, oltre ad essere ingiustificato, si protragga nel tempo. Trasposti simili principi al caso di specie, la Corte Edu ha osservato che la misura contestata è stata imposta ai ricorrenti per periodi lunghi e ad ogni spostamento dalle celle, sicché l’ammanettamento, sebbene intra murario, ha influito sul rapporto dei detenuti con gli altri reclusi, minando il loro senso di autostima. Per di più, la disciplina nazionale prevede l’ammanettamento dei detenuti a vita fuori dalle loro celle solo se ricorre un concreto pericolo di fuga, rimesso all’accertamento delle apposite commissioni penitenziarie.
Tutto quanto premesso, i giudici di Strasburgo hanno ritenuto che la presunzione de facto di ammanettare sistematicamente i detenuti a vita non solo non abbia fondamento legale, ma non deve neppure applicarsi sic et simpliciter a seguito di condanna all’ergastolo né a fortiori, come nel caso di specie, in assenza di provate condotte individuali disordinate. Per conseguenza, l’ammanettamento prolungato, senza adeguata valutazione della situazione individuale del detenuto nonché dello specifico scopo collegato all’applicazione della misura stessa, si risolve in un trattamento degradante ex art. 3 CEDU. Violato, infine, è risultato finanche l’art. 6 par. 1 CEDU, rispetto al quale la Corte ha riconosciuto che i giudici nazionali, negando ai ricorrenti l’opportunità di assistere alle udienze nei procedimenti civili, hanno trasgredito il principio del giusto processo.