La Corte EDU sull’espulsione di stranieri per motivi di sicurezza nazionale (CEDU, Grande Camera, sent. 15 ottobre 2020, ric. n. 80982/12)

La decisione ha avuto origine dal ricorso presentato alla CorteEDU da due cittadini pakistani, il sig. Adeel Muhammad e il sig. Ramzan Muhammad, contro lo Stato della Romania. I ricorrenti lamentavano di essere stati deportati dalla Romania in Pakistan, in violazione dei loro diritti ai sensi dell’articolo 13 della Convenzione e dell’articolo 1 del Protocollo n. 7 CEDU. Adeel Muhammad e Ramzan Muhammad erano entrati in Romania rispettivamente nel 2012 e nel 2009, entrambi con un visto per studenti per soggiorni di lunga durata. Con una nota del 4 dicembre 2012, il Servizio Romeno (Serviciul român de informaţii – “SRI”) chiedeva al pubblico ministero di valutare la posizione dei due studenti al fine di stabilire se fossero da considerarsi “persone indesiderabili” e, quindi, soggette ad espulsione ai sensi della disciplina nazionale. A corredo di simile richiesta venivano allegati documenti classificati “segreti” dai quali emergevano serie indicazioni circa l’intenzione dei ricorrenti di impegnarsi in attività in grado di mettere in pericolo la sicurezza nazionale. Il caso – deciso in prima battuta dalla Corte d’appello – si concludeva con l’accoglimento del ricorso e la relativa dichiarazione dei ricorrenti come “indesiderabili” per motivi di sicurezza nazionale per un periodo di quindici anni. Contro questa decisione veniva sollevato ricorso innanzi alla Corte di Cassazione la quale, però, confermava la decisione della Corte d’Appello. Il caso arrivava alla CorteEDU e, in virtù dell’articolo 1 § 1 del Protocollo n. 7 e dell’articolo 13 della Convenzione, i ricorrenti lamentavano di non aver ricevuto sufficienti garanzie procedurali e quindi di non essere stati messi nella condizione di difendersi efficacemente nei rispettivi procedimenti. Più specificamente, affermavano di non essere stati informati delle effettive accuse contro di loro e di non aver avuto accesso ai documenti in quanto “segreti”. Dal canto suo, il governo rumeno ribadiva la priorità della prevenzione e della lotta al terrorismo e che, per conseguenza, le misure disposte rispondevano fondatamente a tale finalità. Riguardo poi all’obbligo di informare gli stranieri delle accuse contro di loro, venivano in gioco diversi interessi: da un lato, quello di fornire informazioni sufficienti per consentire loro di difendersi e, dall’altro, quello di rispettare le disposizioni di legge in materia di riservatezza delle informazioni classificate come “segrete”. In primo luogo, la Corte nel decidere il ricorso ha ribadito l’ambito di applicazione dell’articolo 1 del Protocollo n. 7 il quale si applica solo agli stranieri che sono “legalmente residenti” nel territorio di uno Stato che ha ratificato questo Protocollo. Nel caso di specie, i ricorrenti arrivati in Romania per continuare i loro studi universitari e titolari di visti per soggiorni di lunga durata erano da considerarsi “legalmente residenti” in Romania quando è stato avviato il procedimento di espulsione nei loro confronti. Di conseguenza, l’articolo 1 del Protocollo n. 7 è ratione materiae applicabile nel caso di specie. In secondo luogo, e dopo ampia ricostruzione del quadro giuridico di riferimento, i giudici di Strasburgo si sono preoccupati di verificare se le limitazioni procedurali adottate fossero proporzionate rispetto al fine della tutela della sicurezza nazionale. In particolare hanno rilevato che l’articolo 1 § 1 del Protocollo n. 7 richiede in linea di principio che gli stranieri interessati siano informati degli elementi di fatto rilevanti che hanno indotto le autorità nazionali competenti a ritenere che rappresentino una minaccia per la sicurezza nazionale e che fosse dato loro accesso al contenuto dei documenti e delle informazioni nel fascicolo su cui le autorità si sono basate per decidere sulla loro espulsione. All’esito di un rigoroso controllo, la CorteEDU ha ritenuto che i fattori di controbilanciamento posti in essere dai giudici nazionali abbiano significativamente limitato i diritti procedurali dei ricorrenti, avendo ricevuto questi ultimi informazioni molto generali sulla caratterizzazione giuridica delle accuse contro di loro. E sulla base di simili considerazioni la Corte ha dichiarato la violazione dell’articolo 1 del Protocollo n. 7 della Convenzione.

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