La Corte Edu si pronuncia sul caso di una coppia di cittadini siriani e dei loro due figli, ai quali era
stato rifiutato il visto di breve durata, richiesto all’ambasciata belga a Beirut in vista della domanda
di asilo in Belgio. Inutile l’esperimento dei rimedi interni avverso tale decisione.
Secondo i ricorrenti, il rifiuto delle autorità belghe di rilasciare loro il cd. “visto umanitario” li
avrebbe esposti ad una situazione incompatibile con l’art. 3 della Convenzione (divieto di tortura e
di trattamenti disumani o degradanti), situazione rispetto alla quale, peraltro, essi non disponevano
di rimedi efficaci ai sensi dell’art. 13 (diritto a un ricorso effettivo). Hanno anche sostenuto una
violazione dell’art. 6 § 1 (diritto a un processo equo), in quanto impossibile per loro ottenere
l’esecuzione di una sentenza favorevole resa dalla Corte d’appello di Bruxelles il 7 dicembre 2016.
La Grande Camera cui è stata devoluta la controversia, atteso che l’art.1 della Convenzione limita il
suo campo di applicazione a coloro i quali si trovano nella giurisdizione degli Stati parti della
Convenzione, ha ritenuto di dover, innanzitutto, verificare se i ricorrenti fossero effettivamente
sottoposti alla giurisdizione belga. Ebbene, la Corte ha ammesso che, statuendo sulle domande di
visto dei ricorrenti, le autorità belghe hanno assunto decisioni relative alle condizioni per il loro
ingresso nel territorio belga e, così facendo, hanno esercitato un potere pubblico. Tuttavia, questo
non è di pe sé sufficiente per ritenere i ricorrenti soggetti alla giurisdizione “territoriale” del Belgio
ai sensi dell’art. 1 della Convenzione; né la Corte ha ravvisato l’esistenza di circostanze eccezionali
che potrebbero portare alla conclusione che il Belgio avesse esercitato la giurisdizione
“extraterritoriale” nei confronti dei ricorrenti. Ed invero, secondo i Giudici di Strasburgo il fatto di
aver avviato un procedimento a livello nazionale non era sufficiente ad instaurare, unilateralmente,
un legame giurisdizionale extraterritoriale tra i richiedenti ed il Belgio, ai sensi dell’art.1 della
Convenzione.
A tal riguardo, la Corte richiama il caso di Abdul Wahab Khan, in cui aveva chiaramente statuito che il semplice fatto di aver avviato un procedimento in uno Stato Parte, in assenza di qualunque collegamento con quello Stato, non può bastare ad entrare nella relativa giurisdizione. Opinare diversamente significherebbe sancire un’applicazione quasi universale della Convenzione sulla base dell’unilaterale scelta di qualsiasi individuo, indipendentemente dalla sua collocazione nel mondo, andando a creare un obbligo illimitato per gli Stati contraenti di consentire l’ingresso a persone a rischio di maltrattamenti contrari alla Convenzione, al di fuori della loro giurisdizione.
Di conseguenza, la Corte ha escluso che i ricorrenti fossero sotto la giurisdizione belga in relazione alle circostanze lamentate ai sensi degli artt. 3 e 13 della Convenzione; parimenti anche l’art. 6 § 1 della Convenzione non era applicabile nel caso di specie.
Di qui la dichiarazione di inammissibilità della domanda.