La CEDU su richieste di visto ed ambito di applicazione della Convenzione (CEDU, Grande Camera, sent. 5 maggio 2020, ric. n. 3599/18)

La Corte Edu si pronuncia sul caso di una coppia di cittadini siriani e dei loro due figli, ai quali era stato rifiutato il visto di breve durata, richiesto all’ambasciata belga a Beirut in vista della domanda di asilo in Belgio. Inutile l’esperimento dei rimedi interni avverso tale decisione.
Secondo i ricorrenti, il rifiuto delle autorità belghe di rilasciare loro il cd. “visto umanitario” li avrebbe esposti ad una situazione incompatibile con l’art. 3 della Convenzione (divieto di tortura e di trattamenti disumani o degradanti), situazione rispetto alla quale, peraltro, essi non disponevano di rimedi efficaci ai sensi dell’art. 13 (diritto a un ricorso effettivo). Hanno anche sostenuto una violazione dell’art. 6 § 1 (diritto a un processo equo), in quanto impossibile per loro ottenere l’esecuzione di una sentenza favorevole resa dalla Corte d’appello di Bruxelles il 7 dicembre 2016. La Grande Camera cui è stata devoluta la controversia, atteso che l’art.1 della Convenzione limita il suo campo di applicazione a coloro i quali si trovano nella giurisdizione degli Stati parti della Convenzione, ha ritenuto di dover, innanzitutto, verificare se i ricorrenti fossero effettivamente sottoposti alla giurisdizione belga. Ebbene, la Corte ha ammesso che, statuendo sulle domande di visto dei ricorrenti, le autorità belghe hanno assunto decisioni relative alle condizioni per il loro ingresso nel territorio belga e, così facendo, hanno esercitato un potere pubblico. Tuttavia, questo non è di pe sé sufficiente per ritenere i ricorrenti soggetti alla giurisdizione “territoriale” del Belgio ai sensi dell’art. 1 della Convenzione; né la Corte ha ravvisato l’esistenza di circostanze eccezionali che potrebbero portare alla conclusione che il Belgio avesse esercitato la giurisdizione “extraterritoriale” nei confronti dei ricorrenti. Ed invero, secondo i Giudici di Strasburgo il fatto di aver avviato un procedimento a livello nazionale non era sufficiente ad instaurare, unilateralmente, un legame giurisdizionale extraterritoriale tra i richiedenti ed il Belgio, ai sensi dell’art.1 della Convenzione.

A tal riguardo, la Corte richiama il caso di Abdul Wahab Khan, in cui aveva chiaramente statuito che il semplice fatto di aver avviato un procedimento in uno Stato Parte, in assenza di qualunque collegamento con quello Stato, non può bastare ad entrare nella relativa giurisdizione. Opinare diversamente significherebbe sancire un’applicazione quasi universale della Convenzione sulla base dell’unilaterale scelta di qualsiasi individuo, indipendentemente dalla sua collocazione nel mondo, andando a creare un obbligo illimitato per gli Stati contraenti di consentire l’ingresso a persone a rischio di maltrattamenti contrari alla Convenzione, al di fuori della loro giurisdizione.

Di conseguenza, la Corte ha escluso che i ricorrenti fossero sotto la giurisdizione belga in relazione alle circostanze lamentate ai sensi degli artt. 3 e 13 della Convenzione; parimenti anche l’art. 6 § 1 della Convenzione non era applicabile nel caso di specie.
Di qui la dichiarazione di inammissibilità della domanda.

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