La condanna dei giornalisti della rivista “Gente” sulla morte di Tobagi, viola l’articolo 10 della Convenzione (CEDU, sez. I, sent. 16 gennaio 2020, ric. n. 59347/11)

La Corte EDU è intervenuta sul caso Mogosso e Brindani, che ritengono vi sia stata un’interferenza, da parte del governo italiano, con il loro diritto alla libertà di espressione. Questi hanno richiesto alla Corte di determinare se in qualità di giornalisti avessero il diritto/dovere di informare l’opinione pubblica, se l’opinione pubblica avesse il diritto di essere informata e, se i motivi adottati dai giudici nazionali fossero sufficienti e pertinenti a giustificare la loro condanna. Il caso attiene alla pubblicazione, nel 2004, sulla nota rivista “Gente”, di un articolo sulla morte del giornalista Walter Tobagi, ucciso nel 1980 da un gruppo terroristico.
L’articolo contestato affermava che Tobagi poteva essere salvato, in quanto, secondo la persona intervistata, l’arma dei Carabinieri era venuta a conoscenza, grazie ad un informatore, dell’attentato terroristico che stava per essere compiuto.
Per il governo italiano, i ricorrenti non hanno rispettato il dovere di presentare informazioni precise e credibili, non avendo agito nel rispetto dell’etica della professione giornalistica.
La Corte osserva che i fatti narrati nell’articolo impugnato si riferiscono indubbiamente ad un argomento di interesse generale, che alimenta il dibattito pubblico su fatti controversi della storia italiana contemporanea, vale a dire l’assassinio di un noto giornalista da parte di un gruppo terroristico.
Oltre alla funzione della stampa di divulgare informazioni ed idee su questioni di interesse pubblico, bisogna considerare che c’è anche il diritto per il pubblico di riceverle.
Per ciò che attiene allo status delle persone destinatarie delle osservazioni contestate, le dichiarazioni controverse non riguardano gli aspetti della loro vita privata, ma la loro attività professionale. Pertanto, i giudici ritengono che il tono generale dell’articolo non sia offensivo e che il suo contenuto non fosse mirato a ledere l’immagine dei due ufficiali chiamati in causa. Infatti, così come riportato dall’articolo stesso, lo scopo perseguito è stato solo quello di mettere in discussione il funzionamento dell’Arma dei Carabinieri durante gli “anni di piombo”. Per ciò che attiene alle notizie di stampa basate su interviste, la Corte ricorda che è necessario distinguere le dichiarazioni rese dal giornalista da quelle che, invece, sono citazioni di terzi. Punire un giornalista per la diffusione di dichiarazione rese da terzi, ostacolerebbe seriamente il contributo della stampa alla discussione di problemi di interesse generale e non potrebbe essere concepito senza ragioni particolarmente serie. La Corte conclude che la condanna dei ricorrenti costituisce un’interferenza sproporzionata con il diritto alla libertà di espressione sancito dall’articolo 10 della Convenzione.

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