Va dichiarata inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 426 del codice di procedura civile, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione. Secondo la Corte, le argomentazioni e i rilievi spesi dal giudice rimettente (anche in sintonia con la posizione di parte della dottrina processualcivilistica) muovono nella direzione di una ridefinizione del «passaggio dal rito ordinario al rito speciale» – quale ora recata dall’art. 426 cod. proc. civ., in termini di “diritto vivente” – su una linea di maggior coerenza con la disciplina dei nuovi riti speciali, nel senso che il mutamento del rito (rispondente ad un principio di conservazione dell’atto proposto in forma erronea) operi, in ogni caso, solo pro futuro, ossia ai fini del rito da seguire all’esito della conversione, senza penalizzanti effetti retroattivi, restando – in altri termini – fermi quelli, sostanziali e processuali, riconducibili all’atto introduttivo, sulla scorta della forma da questo in concreto assunta (e, cioè, nel caso in esame, sulla base di un atto di citazione tempestivamente comunque notificato alla controparte). Una tale auspicata riformulazione del meccanismo di conversione del rito sub art. 426 cod. proc. civ. riflette, appunto, una valutazione di opportunità, e di maggior coerenza di sistema, di una sanatoria piena, e non dimidiata, dell’atto irrituale, per raggiungimento dello scopo. Ma non per questo risponde ad una esigenza di reductio ad legitimitatem della disciplina attuale, posto che tale disciplina (a sua volta coerente ad un principio di tipicità e non fungibilità delle forme degli atti) non raggiunge quella soglia di manifesta irragionevolezza che consente il sindacato di legittimità costituzionale sulle norme processuali.
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