La Corte EDU si è pronunciata sul ricorso presentato da un cittadino lettone, il quale ha lamentato di aver subito trattamenti inumani e degradanti ai sensi dell’articolo 3 della Convenzione a causa di una “gerarchia informale” tra carcerati esistente nel penitenziario ove è stato detenuto. Dagli atti della causa è emerso che nell’ambiente carcerario, una gerarchia informale divideva i detenuti in tre gruppi distinti, o caste: i “blatnie” (la casta più alta), i “mužiki” (la casta media) e la “kreisie” (la casta più bassa). Il ricorrente era stato collocato nella casta più bassa per via della natura sessuale del reato commesso ed in virtù di questa sua collocazione egli aveva subito alcune restrizioni riguardanti l’uso delle strutture comuni, così come l’obbligo di svolgere alcuni lavori umili per conto di altri reclusi. La Corte EDU ha voluto ricordare preliminarmente che l’articolo 3 della Convenzione sancisce uno dei valori fondamentali di una società democratica. Vieta in termini assoluti la tortura, trattamenti o pene inumani o degradanti, indipendentemente dalle circostanze e dal comportamento della vittima. Essa ha altresì ribadito che nel contesto della privazione della libertà, gli Stati devono garantire che la persona sia detenuta in condizioni compatibili con il rispetto della dignità umana e che le modalità di esecuzione della misura non la sottoponga ad un disagio di intensità superiore al livello inevitabile di sofferenza già insita nella detenzione stessa. In ragione di ciò, essa ha osservato come, nella specie, tali “gerarchie informali” siano sfociate in abusi e trattamenti degradanti e che la segregazione fisica e sociale del ricorrente, unita alla negazione del contatto umano, lo hanno portato a sopportare un’ansia mentale che ha superato l’inevitabile livello di sofferenza. Di qui, i Giudici di Strasburgo hanno constatato che le autorità nazionali non hanno adottato misure adeguate per proteggere il ricorrente dai trattamenti ricevuti per l’appartenenza al gruppo dei prigionieri “kreisie” e, di là dal caso di specie, ha ritenuto che per prevenire simili future violazioni, le autorità nazionali competenti, conformemente agli obblighi spettanti allo Stato ai sensi dell’articolo 46 della Convenzione, debbano adottare misure generali adeguate per risolvere il problema che il caso in esame ha sollevato.
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