Il caso definito dalla Corte EDU riguarda una detenuta moldava con gravi disabilità motorie e affetta da epatite C, contratta presumibilmente in carcere. La ricorrente denuncia, in virtù dell’art. 3 della Convenzione, che le condizioni materiali di detenzione non sono adeguate alle sue condizioni di salute, e, in particolare, di non essere stata sottoposta ad alcun test di screening. Per la Corte di Strasburgo, la responsabilità primaria dei funzionari penitenziari è quella di garantire adeguate condizioni di detenzione, compresa l’assistenza sanitaria dei detenuti. In particolare, la presenza di malattie trasmissibili come la tubercolosi, l’epatite e l’HIV/AIDS, costituisce un problema di salute pubblica, soprattutto nell’ambiente carcerario, e per conseguenza i detenuti devono essere sottoposti a test di screening entro un termine ragionevole dal loro ingresso in carcere. Nella specie, proprio l’assenza del suddetto controllo e l’impossibilità di appurare se la malattia fosse già stata contratta fuori dal carcere, pone le autorità nazionali nella condizione di non poter indagare efficacemente sulle prospettate doglianze. Un obbligo di indagine che, come ricorda la Corte EDU “non è un obbligo di risultato, ma di mezzi” che, in linea di principio, deve portare all’accertamento dei fatti e, quandanche ciò non fosse possibile, spetta al Governo convenuto spiegare, in modo soddisfacente e convincente la sequenza degli eventi ed esibire solide prove in grado di confutare le affermazioni del ricorrente. Alla luce di quanto ricordato, la Corte non può non ritenere che la condotta inadempiente delle autorità nazionali e il ritardo nell’effettuare lo screening (eseguito un anno dopo la detenzione) ha pregiudicato qualsiasi possibilità di valutare se il ricorrente fosse infetto da epatite dopo la sua incarcerazione. Per questo motivo, l’omesso screening e l’assenza di specifiche prestazioni sanitarie sono stati ritenuti incompatibili con l’obbligo generale dello Stato convenuto di adottare misure adeguate ed efficaci volte a prevenire la trasmissione di malattie contagiose nelle carceri e, per conseguenza, essa ha ritenuto violato l’articolo 3 della Convenzione.
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