La Corte europea dei diritti dell’uomo ha deciso il ricorso presentato da un cittadino russo contro la Federazione Russa, con il quale egli denunciava la violazione del diritto alla libertà di espressione e di riunione nonché del diritto a un processo equo. Stando ai fatti rappresentati nel ricorso, durante una manifestazione pubblica organizzata allo scopo di “attirare l’attenzione dei lavoratori russi sulla necessità di mostrare solidarietà e lottare per i diritti dei lavoratori durante la primavera e la festa del lavoro” il ricorrente, attivista LGBT, pronunciava tramite altoparlante slogan non attinenti allo scopo dell’evento pubblico organizzato e per l’effetto veniva multato per violazione della disciplina prevista dal Codice degli illeciti amministrativi; successivamente, il Tribunale di Mosca confermava tale condanna in appello. Il ricorrente eccepiva che l’ingerenza nel suo diritto alla libertà di espressione e di riunione non avesse alcun fondamento legale, dal momento che la disciplina vigente sugli eventi pubblici non contiene alcun divieto circa la possibilità di gridare slogan non corrispondenti agli obiettivi dichiarati dell’evento pubblico. In aggiunta, il ricorrente osservava come il diritto interno non attribuisse alla polizia il potere di valutare se un certo slogan fosse o meno correlato con gli scopi dichiarati di un evento pubblico stesso. Sulla base di simili eccezioni il ricorrente sosteneva che l’ingerenza non fosse proporzionata agli obiettivi legittimi perseguiti. I tribunali nazionali non avevano effettuato, infatti, un adeguato test di proporzionalità nell’esaminare il caso. Dal canto suo, il Governo russo riteneva l’interferenza con il diritto alla libertà di espressione e di riunione del ricorrente prescritto dalla legge e che tale interferenza fosse finalizzata, più in generale, al perseguimento di uno scopo legittimo necessario in una società democratica. Sotto il profilo dell’esistenza o meno dell’interferenza, la Corte ha rilevato in via preliminare come vi fosse una correlazione tra la condotta del ricorrente e l’applicazione della sanzione amministrativa, pur sottolineando come l’interferenza costituisca una violazione dell’art. 10 CEDU a meno che non sia “prescritta dalla legge”, persegua uno o più degli scopi legittimi di cui all’articolo 10 § 2 e sia “necessaria in una società democratica” per raggiungere tali scopi. Quanto alla portata della menzionata disposizione convenzionale, i giudici di Strasburgo hanno convenuto col ricorrente che tale interferenza non fosse prescritta dalla legge. Sul punto essi hanno ribadito che l’espressione “prescritto dalla legge” richiede che la misura impugnata abbia una base giuridica nel diritto interno. Sicché, nel caso di specie, tale base giuridica non risulta dal diritto nazionale né, come ha sottolineato la Corte EDU, può dedursi dalla disciplina codicistica. Sulla base di simili considerazioni, la Corte ha osservato al Governo di non aver presentato alcuna prova circa la consolidata prassi interna che interpreta il divieto previsto dalla legge sugli eventi pubblici come estensibile a fattispecie come quelle del caso di specie. E, per conseguenza, ha dichiarato la violazione dell’art. 10 CEDU.
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