La CEDU su ‘vittimizzazione secondaria’ di una presunta vittima di violenza sessuale (CEDU, sez. I, sent. 27 maggio 2021, ric. n. 5671/16)

La Cedu si pronuncia sul caso di una presunta vittima di uno stupro di gruppo, la quale ha contestato le condizioni in cui era stata interrogata durante il procedimento penale e gli argomenti su cui i tribunali nazionali avevano basato le loro decisioni. Nel valutare la domanda della ricorrente, la Corte parte dalla considerazione che lo Stato italiano disponeva di un adeguato quadro legislativo per la tutela dei diritti delle vittime di violenza
sessuale. Quanto all’efficacia dell’indagine, tenuto conto dell’intero procedimento, non poteva ritenersi che le autorità fossero state passive, avendo mostrato la necessaria diligenza e tempestività nel valutare tutte le circostanze del caso. Le autorità giudiziarie si sono trovate di fronte a due versioni contrastanti degli eventi. La prova diretta a loro disposizione consisteva essenzialmente nelle dichiarazioni rese dalla ricorrente in
qualità di testimone dell’accusa, che contenevano contraddizioni in ordine al verbale della visita ginecologica e alle risultanze delle numerose perizie tecniche redatte dagli inquirenti. In tali circostanze, l’interesse ad un processo equo richiedeva che alla difesa fosse data la possibilità di
controinterrogare la ricorrente, dato che non era minorenne e non si trovava in una situazione di particolare vulnerabilità, che avrebbe richiesto ulteriori misure di tutela. La presenza di due versioni inconciliabili dei fatti aveva ovviamente richiesto una valutazione contestuale della credibilità delle dichiarazioni rese e la verifica di tutte le circostanze del caso (M.C. v. Bulgaria). Tuttavia, il modo in cui viene interrogata la presunta vittima di reati sessuali deve trovare un giusto equilibrio tra la sua integrità e dignità personale e i diritti di difesa degli imputati. Il controinterrogatorio non deve essere usato come mezzo per intimidirla o umiliarla (Y. v. Slovenia).
Ebbene, in nessun momento di tale procedimento penale c’era stato uno scontro diretto tra la ricorrente e i suoi presunti aggressori. Le trascrizioni dell’interrogatorio della ricorrente durante le indagini preliminari non hanno rivelato un atteggiamento irrispettoso o intimidatorio da parte delle
autorità inquirenti, o azioni per scoraggiarla o per orientare le successive indagini in una direzione particolare. Le domande che le erano state poste erano pertinenti e funzionali ad ottenere una ricostruzione degli eventi che tenesse conto delle sue argomentazioni e punti di vista e consentire la
preparazione di un completo fascicolo di indagine per proseguire il procedimento giudiziario. Anche se, date le circostanze, era stata indubbiamente un’esperienza difficile per la ragazza, non si poteva ritenere che il modo di condurre l’interrogatorio durante le indagini avesse provocato un trauma ingiustificato o un’interferenza sproporzionata con il suo intimo e la sua vita privata. Durante il processo, poi, la ricorrente era stata interrogata in due udienze. Non essendo la stessa minorenne e non avendo chiesto che il processo si svolgesse a porte chiuse, le udienze si sono svolte in pubblico. Tuttavia, il Presidente del tribunale di primo grado, a tutela della privacy della ricorrente, aveva deciso di vietare ai giornalisti presenti in aula di fare filmati. Inoltre, era intervenuto in più occasioni durante il controinterrogatorio, interrompendo i difensori quando
hanno posto alla ricorrente domande ridondanti o personali o quando hanno evocato circostanze estranee ai fatti. Aveva anche ordinato brevi pause in modo da consentire alla ragazza di ricomporsi. Il procedimento nel suo complesso era stato certamente vissuto dalla ricorrente come un momento particolarmente angosciante, tanto più che le era stato chiesto di ripetere le prove in numerose occasioni, per un periodo superiore a due anni, al fine di rispondere ai quesiti posti, successivamente, dagli inquirenti, dalla Procura e dagli otto avvocati difensori. Inoltre, questi ultimi non avevano esitato, nel cercare di minarne la credibilità, a rivolgerle domande personali, riguardanti la sua vita familiare, il suo orientamento sessuale e le sue scelte intime; circostanze non collegate ai fatti: tale approccio era fermamente contrario non solo ai principi del diritto internazionale riguardo alla tutela dei diritti delle vittime di violenza sessuale, ma anche alla legge penale italiana. Tuttavia, considerato l’atteggiamento assunto dal Pubblico ministero e dal Presidente del tribunale di primo grado e le misure adottate per tutelare la privacy della ragazza, i Giudici di Strasburgo hanno escluso che le autorità pubbliche incaricate del procedimento potessero essere considerate responsabili per l’esperienza particolarmente angosciante vissuta dalla ricorrente, non avendo mancato di tutelare la sua integrità personale durante il processo.
Per quanto riguarda, invece, la motivazione della sentenza, il ruolo della Corte Edu non è quello di sostituirsi alle autorità nazionali o di decidere sulla responsabilità penale dei presunti autori, bensì verificare se il ragionamento dei tribunali nazionali e gli argomenti utilizzati avessero provocato un’interferenza con il diritto della ricorrente al rispetto della sua vita privata e della sua integrità personale, e se vi fosse stata violazione degli obblighi positivi derivanti dall’art. 8 Cedu. Ebbene, secondo i Giudici di Strasburgo diversi passaggi della sentenza della Corte d’appello
avevano violato i diritti della ricorrente ai sensi dell’art. 8. In particolare, la Corte Edu ha considerato del tutto ingiustificati riferimenti alla biancheria intima rossa “mostrata” dalla ricorrente nel corso della serata, così come i commenti riguardanti la sua bisessualità, le relazioni ed i rapporti sessuali
occasionali precedenti agli eventi in questione. Parimenti, la Corte ha ritenuto inadeguate le considerazioni sull’”atteggiamento ambivalente della ricorrente nei confronti del sesso”; ha stigmatizzato l’affermazione secondo cui la decisione della ricorrente di denunciare i fatti sarebbe scaturita dalla volontà di ripudiare un «momento di fragilità e di debolezza che era suscettibile di critica», ecc. Per la valutazione della credibilità della ricorrente (e della responsabilità penale degli imputati) avrebbe potuto essere giustificato il riferimento ai suoi precedenti rapporti con gli imputati o ad aspetti della sua condotta durante la serata in questione, ma nessuna rilevanza potevano avere la situazione familiare della ragazza, le sue relazioni, il suo orientamento sessuale o le sue scelte di abbigliamento, l’oggetto delle sue attività artistiche e culturali. Quindi, secondo i Giudici di
Strasburgo tale interferenza con la vita privata e l’immagine della ricorrente non era stata giustificata dalla necessità di garantire gli imputati il godimento dei propri diritti di difesa. Anche gli obblighi positivi a tutela delle presunte vittime di violenza di genere impongono il dovere di tutelarne l’immagine, la dignità e la vita privata, anche attraverso la non divulgazione di informazioni personali e dati non attinenti ai fatti. Questo obbligo inerisce la stessa funzione giurisdizionale e deriva dal diritto nazionale oltre che internazionale. Inoltre, il Comitato delle Nazioni Unite per l’eliminazione della discriminazione contro le donne ed il Gruppo di esperti sulla lotta contro la violenza sulle donne e la violenza domestica del Consiglio d’Europa (GREVIO) avevano notato la persistenza di stereotipi sul ruolo delle donne e una certa resistenza nella società italiana alla causa dell’uguaglianza di genere, sottolineando i bassi tassi di procedimenti penali e condanne in Italia, che è contemporaneamente causa di sfiducia delle vittime nei confronti del sistema giudiziario e la ragione dei bassi tassi di denuncia di tali reati in tale Nazione. Il linguaggio e gli argomenti utilizzati dalla Corte d’appello riflettono i pregiudizi esistenti nella società italiana sul ruolo delle donne e possono costituire un ostacolo a fornire una protezione efficace per i diritti delle vittime di violenza di genere, nonostante un quadro legislativo soddisfacente. I procedimenti penali e le sanzioni svolgono un ruolo cruciale nella risposta istituzionale alla violenza di genere e nella lotta alla disuguaglianza di genere. È quindi essenziale che le autorità giudiziarie evitino di riprodurre stereotipi sessisti nelle proprie decisioni, minimizzando la violenza di genere ed esponendo le donne ad una vittimizzazione secondaria mediante commenti che inducono senso di colpa e di giudizio, in grado di minare la fiducia delle vittime nel sistema
giudiziario. Di conseguenza, pur riconoscendo che le autorità nazionali avevano cercato di garantire nel caso di specie che l’indagine ed il procedimento giudiziario fossero condotti in modo compatibile con i loro
obblighi positivi ai sensi dell’art. 8 della Convenzione, i diritti e gli interessi della ricorrente ai sensi di tale norma non erano stati adeguatamente tutelati, dato il contenuto della sentenza emessa dalla Corte d’appello. Ne consegue che le autorità nazionali non avevano protetto la ricorrente dalla
vittimizzazione secondaria durante il procedimento nel suo complesso, in cui la formulazione della sentenza ha svolto un ruolo molto importante, soprattutto in considerazione del suo carattere pubblico.

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