La CEDU su condizioni di detenzione legittima di persona “non sana di mente” (CEDU, Grande Camera, sent. 1° giugno 2021, ric. nn. 62819/17 and 63921/17)

La Corte Edu si pronuncia sul caso di due ricorrenti, mentalmente instabili, che dopo aver commesso, rispettivamente, i reati di furto e tentato furto aggravato con scasso, sono stati posti in reclusione, ai sensi della legge sulla protezione sociale del 1930. Successivamente è entrata in vigore una nuova normativa, la legge sul confinamento obbligatorio (“CCA”), che prevede la reclusione obbligatoria per reati più gravi, che comportano una aggressione all’”integrità fisica o mentale” di terzi. I ricorrenti hanno, così, presentato domanda per il rilascio permanente, sostenendo che gli atti commessi non rispondevano più alle condizioni per la reclusione ai sensi della nuova legge. Tali domande sono state respinte con la motivazione che i loro disturbi mentali non erano sufficientemente stabilizzati e che non si era completato il periodo di prova di tre anni previsto dalla legge per poter beneficiare del rilascio permanente. Con sentenza dell’8 ottobre 2019, una sezione della Corte europea ha escluso all’unanimità la violazione dell’articolo 5 §§ 1 e 4 e su richiesta dei ricorrenti il caso è stato deferito alla Grande Camera, che si è pronunciata con la sentenza in oggetto. In relazione alla denunciata violazione dell’articolo 5 § 1, la Corte ha ritenuto che la detenzione dei ricorrenti continuasse ad avere un valido fondamento giuridico e che, dunque, la privazione della loro libertà fosse legittima.
In particolare, quanto al motivo della privazione della libertà, la loro reclusione forzata era una misura di sicurezza di carattere preventivo e non punitivo; quanto alla legittimità della privazione della libertà, la Corte ha tenuto conto delle seguenti circostanze: la novella legislativa in esame, pur applicabile in linea di principio a tutti i casi pendenti, non prevedeva una specifica misura transitoria per persone, come i ricorrenti, collocate in reclusione sulla base del precedente regime giuridico per aver commesso atti meno gravi rispetto quelli successivamente previsti. Secondo i tribunali
nazionali, la legittimità della reclusione forzata dei ricorrenti non era stata pregiudicata da tale modifica legislativa. In particolare, la Corte di Cassazione ha ritenuto che le decisioni nelle cause dei ricorrenti fossero già passate in giudicato. Inoltre, la valutazione dello stato psichico e la conseguente pericolosità della persona non si è basata unicamente sui reati commessi, ma anche su una serie di fattori di rischio. È quindi emerso che il sistema nazionale prevedeva due fasi: la prima, quella del procedimento giudiziario sfociato nella decisione di imporre la reclusione forzata; la seconda fase, iniziata dopo l’adozione del provvedimento, restrittivo, che prevede il monitoraggio della situazione dei detenuti e l’esame delle loro richieste di modifica delle misure. A tal fine, occorre verificare l’eventuale sufficiente stabilizzazione del disturbo mentale dell’individuo e, avendo
riguardo ad una serie di fattori, la sussistenza del rischio di reiterazione del reato. Visto il diritto interno come interpretato dalla Corte di Cassazione, dato che ai ricorrenti non era stata concessa la revoca del provvedimento restrittivo, tale limitazione della libertà personale ha continuato ad essere validamente basata sulle decisioni del tribunale che, pur assunte nell’ambito della normativa precedente, hanno mantenuto la loro forza vincolante. La Corte Edu ha ritenuto l’approccio dei tribunali domestici nel caso di specie, non arbitrario né manifestamente irragionevole. Quanto alla compatibilità dell’approccio adottato con l’articolo 5 § 1 (e), nel caso in esame, non è stato contestato che le tre condizioni di cui alla sentenza Winterwerp c. Paesi Bassi (1979) siano state
soddisfatte: in particolare, era stato dimostrato in modo affidabile che i ricorrenti avevano disturbi psichici, tali da giustificare la reclusione obbligatoria, e che i tali disturbi sono persistiti per tutto il periodo di reclusione. Quanto alla persistenza del disturbo, il diritto interno ha introdotto una revisione periodica automatica durante la quale le persone in reclusione forzata sono in grado, tra l’altro, di sostenere la stabilizzazione della loro condizione di salute mentale e di non rappresentare più un pericolo per la società, nonché di richiedere varie misure alternative alla detenzione ed anche il rilascio definitivo. Ai sensi della sezione 66 dell’ACC il rilascio può essere concesso solo in base a
due condizioni cumulative: il completamento di un periodo di prova di tre anni e la sufficiente stabilizzazione del disturbo mentale, per escludere ragionevolmente che la persona detenuta, a causa di tale problema psichico, eventualmente combinato con altri fattori di rischio, possa
commettere nuovi reati arrecanti pregiudizio o minaccia all’integrità fisica o psichica di terzi. Pertanto, solo l’attuale condizione di salute mentale della persona confinata e l’attuale rischio di recidiva, al momento in cui è stata effettuata la revisione, hanno determinato la decisione di proseguire la detenzione obbligatoria, nessun rilievo aveva rivestito, invece, la natura dei reati commessi. Di qui la conclusione unanime che esclude la violazione dell’art. 5 § 1 (e). Dalla conclusione sulla legittimità della detenzione dei ricorrenti, deriva che anche l’art. 5 § 4 non risulta violato, in quanto la norma non impone, in un simile caso, l’immediato rilascio. Tale rilascio
immediato e definitivo era impedito, secondo i ricorrenti, dalla previsione del triennio di prova imposto dalla nuova legge. La Corte, tuttavia, ha ritenuto che, nel caso di specie, i tribunali domestici avevano respinto la richiesta dei ricorrenti sulla base del fatto che nessuna delle due condizioni
cumulative di cui alla sezione 66 dell’ACC erano state soddisfatte. Inoltre, i Giudici di Strasburgo hanno accolto con favore il fatto che nel frattempo la Corte di Cassazione aveva interpretato l’articolo 66 alla luce dell’articolo 5 §§ 1 e 4 CEDU, stabilendo che ad un individuo che non è più pericoloso deve essere concesso in via definitiva il rilascio, anche nell’ipotesi che il periodo di prova di tre anni non ancora compiuto. Anche in questo caso, dunque, nessuna violazione della Convenzione è stata rilevata.

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