La CEDU sulle condizioni dei richiedenti asilo (CEDU, sez. II, sent. 28 novembre 2017, ric. n. 70838/13)

La Corte EDU si è pronunciata su un caso di confinamento, in condizioni disumane, di una famiglia irariana-afghana al transito di Roszke (confine tra Ungheria e Serbia), in attesa dell’esame della loro richiesta di asilo. Per i ricorrenti le condizioni del loro confinamento erano incompatibili con le garanzie dell’art. 3 Conv. Per il governo i richiedenti asilo nelle zone di transito hanno potuto soddisfare i loro bisogni più elementari in termini di cibo, igiene e di alloggio, e che nessuno è stato lasciato in uno stato di estrema povertà o in una situazione di grave deprivazione. Per la Corte, secondo la consolidata giurisprudenza, il maltrattamento deve raggiungere un livello minimo di gravità per rientrare nell’ambito di applicazione dell’art. 3. Vista la particolarità della situazione, la Corte ha voluto trattare separatamente le doglianze di ogni ricorrente. Per la madre, prima ricorrente, la Corte ha rilevato che la situazione in cui essa si trovava era particolarmente grave in quanto, incinta, avrebbe trascorso quattro mesi vivendo in uno stato di povertà estrema, incapace di soddisfare uno dei bisogni più elementari, mangiare. Per la Corte le autorità nazionali non hanno fornito cibo e per questo motivo la ricorrente si è trovata per diversi mesi in una situazione incompatibile con l’art. 3 Conv. Vi è stata dunque una violazione di questa disposizione. Per i secondi ricorrenti, padre e figli, la Corte ha preso atto della durata del soggiorno di questi, trattenuti per tre mesi e ventisette giorni nella zona di transito. In riferimento a ciò è stata sollevata la questione delle famiglie con i bambini, osservando che le condizioni di vita non erano adeguate per trattenerli in quella zona per prolungati periodi. Vista la giovane età dei bambini e visto lo stato di gravidanza in cui si trovava la mamma, la Corte ha ritenuto che sia stata superata la soglia di gravità richiesta per applicare l’art. 3. Dunque anche in riferimento alla durata della permanenza si è verificata una violazione di tale disposizione. I ricorrenti hanno inoltre sostenuto che la loro sistemazione era stata de facto una privazione della libertà per la quale non era stato emesso alcun ordine di detenzione. Il fatto che fossero entrati nella zona di transito di loro spontanea volontà non significava che avessero acconsentito alla reclusione. In riferimento a ciò hanno sostenuto che l’Ungheria, quale stato membro dell’UE, avrebbe dovuto agire in conformità con l’art. 8 della Direttiva sulle condizioni di accoglienza in base al quale gli stati membri non possono trattenere una persona in detenzione per il solo motivo di essere richiedenti asilo. Il governo si è difeso sostenendo che la privazione della libertà trovava base giuridica nella legge ungherese. Per la Corte, nel caso di specie, non c’era una base legale per la detenzione dei ricorrenti. Essa ha inoltre rilevato che la detenzione di ricorrenti è avvenuta de facto , cioè come una questione di disposizione pratica. Le autorità ungheresi non hanno emesso alcuna decisione formale di rilevanza giuridica completa di motivi per la detenzione. Data la privazione della libertà senza alcuna decisione formale delle autorità ed esclusivamente in virtù dell’ampia interpretazione di una norma generale della legge. La detenzione dei ricorrenti non può dunque essere considerata legale ai fini dell’art. 5, co. 1 Conv. Questa violazione è stata accompagnata da quella del co. 4 dello stesso art., in quanto il rimedio amministrativo suggerito dal governo riguardava le domande di asilo dei ricorrenti piuttosto che la questione della libertà personale. Per questo motivo la Corte ha concluso che i ricorrenti non avevano a loro disposizione alcun procedimento mediante il quale la legittimità della loro detenzione avrebbe potuto essere decisa rapidamente.

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