La CEDU su rinuncia al diritto all’avvocato nel fermo di polizia (CEDU, sez. II, sent. 17 settembre 2019, ric. n. 75460/10)

La Cedu si pronuncia sul caso di una cittadina turca, arrestata nel novembre 2003 in quanto sospettata di appartenere ad un’organizzazione terroristica (il PKK / KADEK, Partito dei lavoratori del Kurdistan), appartenenza confessata dalla donna nel corso dell’interrogatorio cui era stata sottoposta durante il fermo di polizia. Tale confessione, tuttavia, era stata resa in assenza di un avvocato, essendo stata inserita una “X” accanto alla dicitura “nessun avvocato richiesto” stampata sul relativo modulo recante le dichiarazioni.

Tuttavia, al termine della custodia, la donna aveva immediatamente ritrattato le dichiarazioni rese alla polizia, chiedendo l’assistenza di un avvocato e sostenendo di essere stata costretta a firmare quei moduli dietro minacce e maltrattamenti da parte della polizia medesima.
Al termine del processo, nel 2009, la donna era stata giudicata colpevole di appartenenza alla suddetta organizzazione terroristica e condannata a sei anni e tre mesi di reclusione. Il giudice nazionale aveva fondato la sua decisione sulle dichiarazioni rese dalla sig.ra Akdağ alla polizia. La Corte di cassazione confermava la condanna nel 2010. Nel frattempo, la donna aveva anche presentato una denuncia formale per i maltrattamenti subiti dalla polizia, ma le autorità giudiziarie avevano deciso di non darvi seguito per mancanza di prove. Di qui la decisione di adire la Corte Edu, invocando la violazione dell’articolo 6 §§ 1 e 3 (c) (diritto a un processo equo/accesso ad un avvocato), lamentando non solo l’ingiustizia del procedimento svolto nei suoi confronti, essendole stato negato l’accesso a un avvocato durante il fermo di polizia, ma anche di essere stata poi condannata sulla base di quelle dichiarazioni rese sotto coercizione e senza l’assistenza di un avvocato. Pur avendo giudicato inammissibile la doglianza della ricorrente relativa al fatto che la sua condanna nel merito sarebbe stata conseguenza delle dichiarazioni rese alla polizia sotto coercizione, non avendo riscontrato alcuna prova di tali presunti maltrattamenti, la Corte ha, tuttavia, rilevato che il governo turco non era riuscito a dimostrare che la “X” stampata accanto alla dicitura “nessun avvocato richiesto”, sul modulo recante le dichiarazioni della donna, potesse rappresentare una valida rinuncia al suo diritto ad essere assistita da un avvocato durante il fermo di polizia. Non a caso, infatti, al termine della custodia la donna aveva immediatamente chiesto l’assistenza di un avvocato ed aveva ritrattato tali dichiarazioni. Né la Corte è stata soddisfatta della risposta dei tribunali nazionali alle denunce della ricorrente, non essendo stata adeguatamente esaminata dai giudici interni la validità sia della rinuncia, che delle dichiarazioni rese alla polizia in assenza di un avvocato, carenza di controllo non sanata da altre garanzie procedurali che, quindi, aveva inficiato irrimediabilmente l’equità generale del procedimento nei suoi confronti.

Redazione Autore