La CEDU sulla perdita della potestà genitoriale (CEDU, Grande Camera, sent. 10 settembre 2019, ric. n. 37283/13)

La Corte Edu si pronuncia sul caso di una madre norvegese, cui le autorità nazionali avevano sottratto la potestà genitoriale sul proprio figlio, consentendone l’adozione da parte di genitori adottivi. La ragione principale di tali decisioni risiedeva nella presunta incapacità della madre di prendersi adeguatamente cura del figlio, in particolare alla luce dei suoi bisogni speciali, in quanto bambino psicologicamente vulnerabile. Esaurite le vie interne, la signora Strand Lobben aveva adito, a nome suo e del figlio minorenne X, la Corte Edu il 12 aprile 2013, invocando la violazione dell’art. 8 nei loro confronti, ma con sentenza del 30 novembre 2017 era stata esclusa tale violazione, essendo stati ravvisati validi motivi a fondamento dell’autorizzazione dell’adozione del bambino. Il 9 aprile 2018 è stata, poi, accettata la richiesta dei ricorrenti di rinviare il caso alla Grande Camera, che con la sentenza in oggetto ha ribaltato la decisione di due anni fa.
I giudici di Strasburgo hanno riscontrato che le decisioni prese nell’ambito del procedimento che ha portato alla perdita della potestà genitoriale e all’autorizzazione dell’adozione di X, iniziato nell’aprile 2011 e terminato nell’ottobre 2012, hanno inequivocabilmente interferito con il diritto dei ricorrenti al rispetto della vita familiare, in quanto nell’ambito di tale procedimento le autorità nazionali non avevano tentato di effettuare un vero bilanciamento tra gli interessi del bambino e della sua famiglia biologica e non avevano mai preso in seria considerazione il loro interesse ad essere riuniti. La Corte ha osservato, in particolare, che le decisioni erano state in gran parte basate sulla affermazione che la madre non sarebbe in grado di fornire ad X le cure adeguate, ma secondo la Corte, c’erano state molte carenze in quel processo decisionale: in primo luogo, si rileva l’assenza di frequenti e significativi contatti tra madre e figlio, i cui sporadici incontri si erano per lo più svolti in un ufficio del Servizio di assistenza all’infanzia, alla presenza della madre adottiva e di un supervisore, contesto non particolarmente favorevole allo sviluppo di un legame fra i ricorrenti e dal quale non era possibile trarre prove della capacità di cura della madre biologica. In secondo luogo, non erano state fornite adeguate valutazioni della natura della vulnerabilità del figlio a parte un generico riferimento al suo essere facilmente stressato e bisognoso di tranquillità, sicurezza e supporto, né si era proceduto ad una rivalutazione di tale vulnerabilità e di tali bisogni, che avrebbero dovuto registrare un positivo mutamento nel tempo, atteso il collocamento del bambino in affidamento già a tre settimane di vita. I rapporti degli psicologi sulla cui base si era deciso per l’adozione erano, dunque, obsoleti, anche perché non erano stati presi in considerazione nemmeno gli sviluppi nella vita familiare della madre, la quale nel frattempo si era sposata ed aveva avuto un secondo figlio

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